Il presente articolo esce nel primo decennale della pubblicazione di “Versi sottovento” (2006-2016), ultima opera di Giovanni Scarale, venuto a mancare il 2 aprile 2010. Sono grato a Giuseppina D’Errico, consorte del poeta, per le notizie e la consultazione dell’archivio. M. Totta
Non solo è colui che inventa immagini il poeta, combinando le parole. Egli è profeta, che annuncia il futuro ed evoca il tempo andato; legge e detta la follia creativa del presente. E’ un visionario proiettato nel non-luogo, cioè nel sogno, senza riferimenti né di luogo né di tempo; egli fa il viaggio civile evocatore del tempo epico della vita, il tempo “Altro”, come si è espresso Mussapi.
Giovanni Scarale riconosciuto biografo, fine scrittore prosaico come in versi, meticolosamente scandaglia con anima trepida, lo scibile umano, le cose, il mondo animale e l’universo spirituale. La sua geografia dell’anima evidenzia una certa complessità, popolata di rarità, di sublimità, d’ironia sognante. Proclama un bio-ritmo, un “pulviscolo d’esistenza”, in bilico tra la contingenza e il tema sacro, ultraterreno. E’ un credente compiuto Giovanni, ancorato a biblica fede. Tuttavia spiazzato nel Relativismo novecentesco, negatore di ogni recesso dello spirito e delle regole dell’etica: vuoto esistenziale contemporaneo, che toglie il sonno al poeta. Per questo egli convoca angeli, si attarda su uomini reinchiodati come padre Pio, che annualmente nei Settembrini Canti, rivisita con vibrante efflorescenza. Un circuito di meraviglia laica, teso a contemplazione del mistero, privilegio delle creature più pure e sensibili.
In Versi sottovento, silloge in lingua, protagonista è il cane. Un privilegio inatteso per lui, nella scrittura dell’ultimo tempo del poeta sangiovannese. Dopo quest’opera, non annotiamo altra pubblicazione ufficiale. Nell’elegante carnet di Luigi Sampietro (LietoColle, 2006), spicca l’imperdibile versione in lingua inglese di Anthony Oldcorn, velatamente tardoromantica di fine ‘800. Il progetto editoriale annovera l’opera nella collezione I quaderni di LietoColle.
La genesi dell’opera, al di là di ogni ragionevole dubbio, porta all’amicizia di Scarale con Derek Walcott, Nobel per la poesia nel 1992; e con Nancy Dowd, americana che ha lavorato nel cinema, anche lei proprietaria di una villa a Saint Lucia, come Walcott. Al periodo pasquale 2005, risale la visita di Giovanni, concomitante a quella di Heaney, alla ventosa isola caraibica, ospiti a villa Walcott. I prolungati ragionamenti con Derek e Seamus; le gite in barca “sottovento” da Rodney Bay nel sospeso Caribe; l’assortita canea – cinque cani sepolti e cinque viventi – che circondava la Dowd, sono stati determinanti a suggerire l’esotico titolo. Ma anche le dediche, sia a Derek Walcott (p. 16), sia all’usignolo d’Irlanda, Seamus Heaney (p. 18), titani della poesia.
Sanguigno e bilioso, domestico e irascibile, guerrafondaio e pacificatore, anticonformista comunque, il Nostro esce fuori dal suo scriptorium, con tutta sincerità, eleganza, humour, spessore accademico di poeta garganico. Il Gargano, lo Sperone del “Crocifisso monaco” e di Michele, il più visibile degli angeli, fanno da sfondo, credo, alla produzione letteraria dello Scarale. Perciò Versi sottovento è anche un registro, pressante e lieto di memoria (p. 12).
Dicevamo del cane.
Alla poetica scaraliana, il cane mancava. Fugacissime le apparizioni del quadrupede nelle composizioni in lingua e nel dialetto. Il Quaderno di Poesia Dialettale, stampato a Roma nei tipi di Tomassetti (vedi n. 7, anno 2011, p. 140), ce ne fornisce un esempio. Ospita la poesia ‘La forza del cane’, sette versi endecasillabi, in dialetto. Cito la chiusura: “Pe sustenèrce jè sampe gradèvule /pe jasse come jè nunn’è cedevule: Per sostenersi è sempre gradevole, /per essere com’è non è cedevole.”
Versi sottovento ha per centro della narrazione il cane, alter-ego del poeta, capace di fiutare, scovare, inseguire, anelare superlativi pensieri o sovrumane incarnazioni. E’ rotta la distanza fra i due. Un binario li proietta, da spontanea sapiente compagnia, all’oltre, all’al di là. Sì! Perché la natura tutta, ha meritato esaltazione nella redenzione. Acquisizione di fede, certo; ma anche reinvenzione della poesia. Nel cane non più il cane a parlare, ma la coscienza umana, in tormentosa tensione.
L’affetto del poeta verso il cane erompe in uno scioglilingua originale di nominazioni, più che di sinonimi o compassati nomignoli: Achille, Does, Argo, Iris, Kyran, cane di Posillipo, cane di Termoli, Fiorino. Ogni voce emette guaiti… misteriosi /gli accessi dell’affetto (strofa XIII). Ma anche espressioni comprensibili, umane: Te ne stavi/diritto sulle zampe e a testa alta/ come una doverosa sentinella./ (strofa XV). Voci in dialogo, uomo e animale, che ispirano 28 strofe.
Il cane, amico “zeccuse” cioè marchiato da zecche, esercita un’attrazione fatale. Riconoscibile in esso l’intrepida Sfinge, intramontabile mito egizio, che accanto alle piramidi, legge il tempo, non solo kronos, ma anche mistero, a cui l’uomo sovente apre l’intelletto e il cuore.
Ha meritato privilegi il cane, l’empatia del padrone e il simbolico nome: Fiorino, cioè ricchezza.
Come non pensare ad Argo, che con Penelope, aspetta trepido il giramondo padrone Ulisse, l’Odisseo? Come non pensare a un convivio ristretto, alla cena per due, in cui non distingui il servo dal padrone? Penso anche al cane-poeta, un fenomeno, un archetipo. <I creativi sotto la patina della normalità sono imprevedibili> aveva scritto lo Scarale all’amico musicista Giuseppe Fiorentino (Lo Sperone Nuovo, gennaio 2010, p. 3).
Nella folla delle chiose, si fa strada quel fido cane, che, come assembra il disperso gregge, così congrega il mondo al vento dell’amore (Versi sottovento, p. 14), alla giustizia ventura.
Non è poco!