La chiesa dedicata a Sant’Onofrio eremita è tra le più antiche di San Giovanni Rotondo.
Un’epigrafe ormai illeggibile, situata sull’arco della porta, secondo gli studiosi forniva la notizia che essa fu edificata come “opera regia” da Federico II di Svevia, il quale aveva già proclamato la città di San Giovanni Rotondo “luogo regio” affrancandola nei confronti dell’Abazia di San Giovanni in Lamis. L’epigrafe riportava l’anno 1231.
Lo stile della chiesa è romanico-gotico.
Della chiesa Matteo Fraccacreta scrive:
“Prima parrocchia fu là S. Onofrio, olim (una volta) tempio di Giano, con cemetero, e altare sotterraneo de’ primi Cristiani: temporibus persecutionum clam… solebat populus convenire in cryptis Ecclesiae, et Oratoria condi coeperunt, scrive Florente t. 2 de praeb. Et Dignit”.[1]
“E’ duecento passi al sud del paese , dove la statua di S. Gio: Battista nel suo dì festivo dal suo vicino oratorio pur suburbano, come quel di S. M. di Loreto”.[2]
Un articolo di Leandro Giuva ci informa che nella seconda metà dell’ottocento il vandalismo di un amministratore del Comune poco rispettoso della religione, forse per oltraggio, diede il permesso di conservare fascine di rami secchi all’interno del tempio, allora sconsacrato. Nel mese di luglio 1890 le fascine presero fuoco e un violento incendio distrusse la bellissima tettoia e l’abside, di magnifica fattura. Un arco gotico e alcuni muri interni rovinarono a terra. In piedi restarono solo i muri esterni, compresa fortunatamente la facciata che poté continuare a mostrare la bellezza architettonica e l’antichità della chiesa.
Antonio Beltramelli fotografò i resti della chiesa così come apparivano nell’anno 1907.[3]
Ci furono decenni di abbandono, durante i quali i ruderi furono utilizzati anche come ricovero per animali. Il canonico Giuseppe Principe, ferito dal lassismo delle istituzioni, si fece promotore dell’attività di recupero e restauro della chiesa. Gli fu d’aiuto il cav. avv. Giovanni Giuliani che, oltre a dare il suo personale contributo, favorì l’arrivo in loco del Soprintendente di Bari, rafforzando l’autorevolezza e la fattibilità dell’iniziativa. Altrettanto fece il cav. avv. Teodorico Lecce che proseguì l’opera amministrativa iniziata dal Giuliani facendo deliberare al Consiglio Municipale un sussidio di mille lire. L’antica e importante chiesa, testimone di tante vicende storiche sangiovannesi, fu benedetta e restituita alle funzioni religiose dal vicario foraneo don Michele Palumbo il 24 agosto 1914. Erano presenti alla cerimonia almeno duemila fedeli. Celebrò messa solenne l’Arciprete don Francesco Nardella con l’intervento di tutto il Capitolo.
Il canonico Principe, orgoglioso di essere riuscito ad appagare un desiderio covato per anni, comunicò la notizia dell’inaugurazione ad un giornale della provincia, spiegando che le insperate agevolazioni incontrate, in mezzo a non poche difficoltà che si erano presentate, erano il segno tangibile del volere di Dio di sottrarre quel tempio venerabile per antichità e per arte all’abbandono e agli usi ignobili e di restituirlo agli antichi onori.[4]
Un contadino donò alla chiesa una statua della Madonna del Carmine. Cosicché il 30 agosto 1914, per celebrare la festa della SS. Vergine, la statua fu portata in processione per il paese. Il canonico Prencipe recitò il panegirico nella nuova chiesa, gremita di fedeli. La giornata fu allietata dallo svolgimento di gare ippiche. A sera tutta la popolazione si riversò nei dintorni della Villa che offriva una poetica visione, con tante lampadine di acetilene ondeggianti tra i rami. Per l’occasione la banda cittadina allietò i presenti eseguendo brani di musica scelta.[5]
I muratori si accollarono la maggior parte delle spese, dando inizio ad una tradizione durata fino ai tempi nostri.
Da tempo immemorabile la piazza di S. Giovanni Rotondo ebbe enorme importanza per i commercianti di cereali di tutta la Puglia, poiché vi si svolgeva una fiera fiorentissima i cui prezzi erano presi a riferimento per la vendita in altri luoghi. Questa consuetudine spinse i sovrani del Regno delle due Sicilie a emanare disposizioni che resero obbligatori tali prezzi in tutte le terre del Regno. Il prezzo dei cereali veniva proclamato alla presenza di moltissimi sindaci. La “voce” del prezzo era resa pubblica da un banditore, che nel giorno di S. Onofrio (11 giugno) emetteva le sue “grida” per le strade del paese. E’ ragionevole supporre che originariamente ciò avvenisse proprio nella chiesa dedicata al santo.
Poiché a mese inoltrato si era più sicuri della qualità e della quantità del raccolto, il viceré Cardinale Antonio Granvela, con pragmatica de Nundinis del 29 maggio 1575 spostò la data della voce dall’11 al al 19 giugno, festa di S. Pietro e Paolo, comandando anche “che quella fiera che in detta terra di S. Gio: Rotondo si osserva nel detto dì di S. Onofrio, ed alcuni dì precedenti, ed altri seguenti, si passi nel detto dì de’ Santi Pietro, e Paolo”, col godimento da parte degli abitanti delle stesse franchigie della fiera di Sant’Onofrio. E poiché in terra di San Severo vi era già una fiera di San Pietro e Paolo, questa fu spostata al 6 Luglio.[6]
Allora vigeva tra i mercanti l’abuso di scommettere sulla futura voce del prezzo dei grani di San Giovanni Rotondo e di altri luoghi, giocando sul più e sul meno. Si ritenne che ciò arrecasse pregiudizio al commercio, provocando l’alterazione dei prezzi. Perciò si proibì di effettuare tali scommesse, così come per quelle che si praticavano sulla vita o sulla morte del Pontefice.[7]
Oggi, per colpa del passato abbandono, le pareti interne mostrano solo poche tracce di colore degli antichi affreschi ma con un poco di fantasia possiamo respirare un po’ del suo spirito antico immaginando gruppi di devoti nei loro costumi medioevali sfilare fuori le mura del paese e varcare il portale della chiesa. Allora la vedremo nelle sue sembianze di vecchia Signora rugosa dal sorriso dolcissimo, che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per arrivare fino a noi e raccontarci un po’ della sua storia.
Giulio Giovanni Siena
[1] Matteo Fraccacreta, Teatro topografico storico-poetico delle Capitanata, Tomo III, Napoli 1834 pagg. 333 e 334. Con il riferimento al Franciscus Florentis tractatus (“Florente”) – opera iuridica, tomus secundus – l’autore sembra voler richiamare alla memoria quanto genericamente accadeva nel mondo cristiano al tempo delle persecuzioni.
[2] Cfr. Matteo Fraccacreta, ibidem.
[3] A. Beltramelli, Il Gargano, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1907.
[4] Cfr. Giuseppe Prencipe, lettera del 24 agosto 1914 in La Capitanata del 29-30 agosto 1914, pag. 3.
[5] La Capitanata, 5-6 settembre 2014, pag. 2.
[6] Cfr. Matteo Fraccacreta, ibidem.
[7] De sponsionibus mercatorum, et aliorum, Titulus CCXXVIII, Prammatica I, 3 marzo 1581.