Osservo una cartolina di una settantina d’anni fa. È una panoramica di San Giovanni Rotondo, vista da Ovest.
Le case si fermano lungo il fronte di quello che è ora Corso Matteotti; Corso Roma è appena in embrione.
Al di qua, il mulino Siena e l’antica taverna, punto di ristoro delle numerose schiere di pellegrini diretti verso la Sacra Spelonca di Monte S. Angelo.
La Via Sacra Langobardorum[1]E’ più corretto parlare di Via Francesca, con cui veniva indicato il tratto di strada garganico percorso dai pellegrini, attraverso il quale giunse alla grotta di S. Michele Arcangelo anche … Continue reading era bianca e stretta e nelle vicinanze del paese, sul lato Sud, era costeggiata da un alto muro di cinta, che delimitava il Parco Giuliani.
È inevitabile. L‘immagine antica del Paese si affolla di ricordi.
Come per incanto, donne d’altri tempi dalle lunghe vesti nere rigonfie rianimano lu Puscinone. Risento il loro vociare scherzoso mentre aspettano il turno per riempire d‘acqua le lucide conche di rame. Poi ognuna di loro solleva con destrezza il pesante carico sulla testa, interponendovi un morbido tarallo di stoffa. Infine , con un pugno in vita ed una mano stretta al manico della conca, quelle dolci figure sfilano verso casa, ritte come fusi, roteando appena il busto per rispondere al saluto delle comari con voce ferma e sicura.
Talvolta le portatrici erano talmente piccine da pesare poco più della conca piena d’acqua, che amorevoli mani aiutavano a sistemare sul loro capo. Le madri, alle prese con la numerosa prole e con i problemi di tutti i giorni, non immaginavano che ciò potesse procurare la scoliosi alla spina dorsale di quelle fragili creature.
Più a Nord c’erano l‘orto di Paulàre e la vigna di Mingaticce ed ancora altre vigne ed orti, più a Sud come ad Ovest, tutti animati dalla presenza dell`uomo, dal suo lavoro duro e tenace che garantiva un’onesta sopravvivenza familiare.
Rendevano le giornate meno amare le allegre e chiassose scorribande di gruppi di ragazzotti, eternamente in guerra tra loro. Le “bande” erano contraddistinte dal nome del quartiere di appartenenza. Questa zona, quand’ero ragazzo, era predominio della banda de lu Puscinone.
I proprietari dei terreni vicini avevano un bel da fare per evitare le indesiderate e frequenti invasioni di campo dei ragazzi, vogliosi di gustare sugli alberi frutti di prima stagione, ancor prima della loro maturazione. La lestezza delle loro incursioni era pari a quella delle loro precipitose fughe quando, per sfuggire alle giuste ire del danneggiato, «li calecàgne urrevane ‘ncule (i calcagni arrivavano al sedere) ».
Talvolta i ragazzi si limitavano a prelevare dalle vigne qualche tralcio sottile. Opportunamente sezionati, se ne ricavavano “vitacchi”, una sorta di sigari improvvisati, dal fumo caldo ed aspro che pizzicava la lingua. Quelle boccate, tirate tra un colpo di tosse e l‘altro, davano un’accelerata al tempo: tanta era la voglia di crescere!
A quel tempo il Piscinone era agghindato di panni variopinti, appesi a lunghe “zoche” (corde), stesi ad asciugare lì per la natura del luogo, che offriva sole e vento in quantità.
La stenditura dei panni era pure l’occasione per ritrovarsi e scambiare quattro chiacchiere, cosa che conferiva a quel luogo un’importante funzione di aggregazione sociale.
ll terremoto del 1948 ferì il territorio urbano. La volta del Piscinone crollò e si formò una profonda voragine. Un contadino stava abbeverando il cavallo, e si salvò grazie alla ipersensibilità della sua bestia che, con una provvidenziale inversione dei ruoli, trascinò l’uomo aggrappato alla cavezza in un luogo più sicuro, malgrado questi, ignaro di ciò che già cominciava ad accadere, inveisse e lo strattonasse con forza. Il tonfo fu avvertito a distanza. Nelle vigne ci fu il fuggi fuggi generale. La terra continuò a tremare.
Gli sfollati occuparono le vigne di Mingaticce e di don Gennaro Giuliani. Sorsero numerose baracche di legno e si improvvisarono tende con teli tesi tra un albero e l‘altro, in attesa che il pericolo cessasse. Il Piscinone fu transennato, per poi essere rifatto, con le nuove bocche, intorno al 1950.
Più a Sud c’era il Parco delle Rimembranze con la statua della Vittoria alata.
All’ombra di quella pineta, poi tagliata, più generazioni di ragazzi concentravano le più disparate attività ludiche.
La memoria del tempo mi restituisce l’eco dei colpi di fionda scagliati contro i rami secchi delle vertiginose chiome e, ad ogni rimbombo cessa ancora anche il ricordo del frenetico cinguettio dei passeri, che riprendeva subito dopo, più gioioso di prima. Sui tronchi dei pini, sospinte da archi costruiti con rami flessuosi, si conficcavano, vibrando, «li frecce a ‘mbralle», asticine di ferro ricavate da ombrelli fuori uso.
Un flash dal passato: un ragazzo incosciente mi tiene sotto tiro; scappo al riparo dietro un albero; scocca la freccia e mi trafigge il braccio, l’unica parte del corpo rimasta allo scoperto. Poi il ragazzo fugge via come il vento. Si avvicina un vecchio, mi sfila la freccia e cosparge la ferita con la cenere della sua sigaretta, ottenuta arrotolando in carta velina un pizzico di trinciato forte. “Questa disinfetta” – dice – quasi voglia trasmettere il rito delle sacre ceneri delle fanoie di San Michele, raccolte e custodite dai pellegrini da tempo immemorabile per guarire le ferite. Ed io, rassicurato, torno a giocare. Ripenso, però alle povere cicale, rneno fortunate di me, che, una volta trafitte, roteavano vorticosamente come l’elica di un aeroplano, emettendo un suono sempre più stridulo, fino a che il foro s’allargava talmente da provocarne la morte.
Più in la altri bambini giocano a li mazzarèdde. Altri a palline, misurando con l‘occhio la forza da imprimere alla piccola sfera per raggiungere il fossetto o per bocciarne un`altra più piccola.
Riappare pure la figura del carabiniere. Osserva attentamente tutto e tutti. Poi si blocca e fissa dritto negli occhi un ragazzino. Da una gamba del suo calzoncini, eternamente corto, fuoriesce un sacchettino ripieno in cui, ad ogni movimento, sembra riprodursi il rotolio della ghiaia del mare. All’invito del gendarme, il ragazzo rovescia a terra il piccolo tesoro custodito in saccoccia: centinaia di bilie colorate, nuove di zecca, frammiste a qualche monetina di 5 o 10 lire, rotolano nella polvere. Al ragazzo non è dato di possedere tante palline. Confessa. Si . È stato lui a scassinare la cassetta delle offerte della Madonna dell’lncoronata, in Corso Regina Margherita. Per un giorno la Madre Celeste gli aveva dato la possibilità di sentirsi uguale agli altri e forse l’aveva già perdonato.
Intanto, giù per Corso Matteotti, con un fracasso indiavolato, si svolge l‘ultima sfida della giornata. Li carrozze sono lanciati al massimo. Ad ogni sterzata i cuscinetti d’acciaio slittano rumorosamente sull’asfalto. I piedi strisciano per terra, frenano e stabilizzano il mezzo. Poi il guizzo finale. Vince con qualche metro di vantaggio lu carrozze a tre assi, lungo spropositatamente. Cinque o sei ragazzini esultano per quel «mostro» di macchina che sono riusciti a costruire e canzonano i perdenti. Ora tutti a casa, per ritrovarsi più tardi, per giocare a la Cuccuuaia (civetta).
* * *
È sera. Tra poco le ombre caleranno sulle cose e prenderanno il posto della nostalgica patina del tempo.
Non ci sono più vigne, né orti, scomparsi sotto una colata impenetrabile di cemento. Né ci sono bambini che giocano per strada.
In compenso giocano gli adulti, a fare i carcerati con i loro figli. Tra poco essi scenderanno dalle vie per l’ora d’aria. Così Corso Umberto I e Piazza Europa si popoleranno di sonnecchianti cervelli. Per un’ora, forse merito dell’ossigenazione, lo struscio farà scomparire il torpore dalle menti e tutti diventeranno liberi e sapienti.
È un miracolo che si compie ogni giorno da tempo immemorabile: una massa enorme di materia grigia, la mia compresa, si mette in moto, si analizzano situazioni e si trovano sempre impeccabili soluzioni per riacquistare la dignità perduta. Ma poi sono pochi quelli che agiscono. Gli altri desistono o si determinano in azioni del tutto opposte a quelle dichiarate.
Con queste premesse in quale cambiamento possiamo ancora sperare?
( Nostalgici frammenti di Giulio Giovanni Siena è tratto dal giornale Pirgiano, anno IV, n. 3, maggio-giugno 1993)
Note
↑1 | E’ più corretto parlare di Via Francesca, con cui veniva indicato il tratto di strada garganico percorso dai pellegrini, attraverso il quale giunse alla grotta di S. Michele Arcangelo anche San Francesco d’Assisi. |
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