Giulio Giovanni Siena
In quel tempo bruchi e cavallette affamavano la popolazione, attaccando e distruggendo interi raccolti di grano ed ortaggi. Per quanto provocasse danni ingenti in tutta la Capitanata, questo flagello era di casa soprattutto nel tenimento di San Giovanni Rotondo. L’intendente provinciale si fece promotore di una campagna di informazione sui metodi di lotta da adottare, inviando numerosi dispacci a tutti i sindaci. Il decurionato sangiovannese inserì delle norme specifiche nel regolamento di Polizia Rurale del 1850.
La funzione di coordinamento per la lotta alle cavallette era affidata ad una “Commissione brucaria” locale nominata dalla Giunta, composta da sei membri e presieduta dal sindaco. Il tenimento della cittadina garganica fu suddiviso in un adeguato numero di sezioni. Per ogni sezione si nominava una Sottocommissione composta da tre o quattro membri, scelti tra gli individui del posto da proteggere, e presieduta da un membro della commissione principale. La Commissione stabiliva il numero degli operai necessari, ne compilava l’elenco e fissava la paga giornaliera. Inoltre formava una “lista di tutt’i possessori di animali necessari per la requisizione dell’ovario al che era efficacissima la specie suina”. Infatti, un congruo numero di maiali era capace di rivoltare col muso e le zampe un intero appezzamento di terreno infetto, mettendo allo scoperto le uova e danneggiandole.
Le sottocommissioni erano sottoposte gerarchicamente alla commissione principale, alla quale inviava un rapporto giornaliero sugli interventi eseguiti. Esse avevano la facoltà di esercitare sul territorio di propria competenza gli stessi poteri della commissione principale. Un segretario teneva al corrente due registri, per le entrate e le uscite. La Commissione principale relazionava ad una Commissione Centrale funzionante nel capoluogo. Le commissioni venivano rinnovate annualmente del 50%.
Apparsi i bruchi o le cavallette in un tenimento prossimo a quello comunale, le commissioni approntavano tempestivamente “tutti gli ordegni necessari alla distruzione dei bruchi, come racane, scope, magli, spinati ed altro, facendo capo a tutti gli industriosi di campo, i quali non potevano rifiutarsi ad ogni richiesta della commissione e suoi delegati”.
La lotta si svolgeva in più fasi. In estate inoltrata le cavallette affondavano l’addome nel terreno per depositarvi le uova congiuntamente ad una sostanza vischiosa che indurendo formava un involucro protettivo molto resistente (ooteca). Era questo il momento chiave per bonificare i terreni infetti, poiché la schiusa delle uova avrebbe popolato la zona di larve voracissime di sostanze vegetali che, una volta diventate adulte, avrebbero sciamato sotto forma di cavallette, allargando e moltiplicando il danno in tutto il tenimento comunale ed oltre.
Le guardie comunali erano tenuti a contrassegnare in modo ben visibile “i luoghi nei quali tali insetti nocivi avessero potuto depositare le uova, per farne caccia a tempo opportuno”. In loco venivano condotti animali avidissimi di uova come polli, tacchini, maiali. Se i maiali non erano sufficienti le autorità chiedevano l’aiuto dei proprietari dei comuni viciniori, cointeressati al problema. Significativa è una lettera di biasimo del Sindaco di Monte Sant’Angelo al primo cittadino sangiovannese, datata 17 giugno 1852, in cui si giudica “veramente punibile” l’azione dei custodi delle Masserie del Barone Angeloni e dei Signori Bramante, i quali avevano negato l’acqua agli animali spediti nel tenimento.[1]
Se il terreno infetto era scosceso o abbondava di sterpi, pruni ed altro, “la piccolezza istessa degli insetti impediva di adottare con successo i magli, le spinate o strascini, le così dette traglie o simili ordigni de’ quali si faceva uso per lo schiacciamento dei moscherini”. In questi casi si ricorreva all’efficace mezzo del fuoco.
Queste alcune istruzioni dell’Intendente per combattere i bruchi allo stato larvale:
“Al tempo che iniziano a nascere e saltare questi velenosi animali, i padroni de’ seminati di quelle terre salde, dove (le larve) si sogliono porre a mangiar erba, facciano un fosso, convenientemente grande; ed essendo la natura di loro di andare sempre al fresco, come sentiranno un po’ di caldo s’andranno a porre dentro quel fosso, la qual terra, quando si caverà, s’ha da porre lungo la sponda ed orlo dei seminati, e lasciare piana, e libera la parte dove quelli stanno, e da dove hanno da entrare nel fosso; atteso che non possono volare tanto in quel tempo; per questo s’ha da evvertire che la parte d’onde hanno da entrare nel fosso, resti piana e libera”.
La Commissione brucaria centrale, fatto un sopralluogo registrò l’efficacia di del metodo appena descritto:
“In posta Farano che resta alla destra della Consolare evansi 34 operai che dal 1° giugno in fino al giorno 3 avevano riempito 148 fossette di cadaveri de’ malefici insetti, contenendone ognuna circa 3/4 di tomola, avendo una diligenza di chiuderli con molta terra per impedire la perniciosa esalazione del fetido corrompimento di quei numerosi cadaveretti…”.[2]
Il terzo momento di intervento era il tempo in cui le cavallette, ormai adulte, sciamavano da un posto all’altro, portando rovina e distruzione nei campi già pronti per il raccolto. In questo ultimo stadio di crescita il mezzo di lotta più efficace era la “racana”. Grossi teli di sbarramento venivano tesi contro gli sciami di cavallette che vi sbattevano contro, ricadendo in un solco scavato alla base di essi. Ad ogni “racana”, che doveva essere di ragguardevole dimensione, era addetta una compagnia composta dalle 13 alle 25 unità lavorative.
Nel 1851 l’intendente spiegava che quell’anno, malgrado una forte presenza di bruchi, non vi era stato un gran danno alle granaglie “grazie alla Provvidenza, che lo sviluppo de’ malefici insetti aveva avuto luogo quando già esse erano indurite e mature; per cui avevano fatto saggio della loro voracità sull’erbe, ed i cardi più verdi delle messi”.[3] Tuttavia il funzionario metteva in guardia il sindaco sangiovannese sulla “di lui responsabilità a mettere tutta la premura per impedire la diffusione di tale flagello per l’ambito dell’intera Provincia, che… avrebbe potuto in venturo essere esiziale all’agricoltura”. Difatti l’anno successivo i bruchi ricomparvero più numerosi che mai nei tenimenti di San Giovanni Rotondo, Manfredonia e Cerignola “ove stettero nello scorso anno, quando, particolarmente nei primi due Comuni se ne dava la caccia, e migliaia e migliaia di tomoli di essi, eran preda della caccia stessa”.[4] Per quanto la quantità di bruchi distrutti fosse enorme, questo dato non è credibile, considerato che il tomolo napoletano, unità di misura di capacità per aridi, equivaleva a circa 55 litri.
Verso la fine di maggio 1852 operavano nel tenimento di San Giovanni Rotondo circa 400 persone, con 17 racane che assicuravano giornalmente la distruzione di 70 tomoli di bruchi e cavallette. Poiché le persone disponibili non bastavano, necessitò farne giungere altre dalla vicina Manfredonia.[5] In altre occasioni le “compagnie” giunsero dagli altri paesi del circondario.
Il lavoro procedeva instancabilmente e non si fermava neppure nei giorni festivi “stante l’urgenza, potendo i lavorieri udir la Messa nella cappella di campagna più vicina”. Poiché nel paese non v’era personale a sufficienza, furono inviate compagnie dai paesi vicini. Il Municipio spendeva circa 150 ducati al giorno. La Cassa comunale si svuotò per anticipi di spesa e la Commissione locale fu costretta a chiedere aiuti economici alla Commissione Centrale e alla Cassa Provinciale. Nel mese di settembre 1852 la colonna devastatrice di cavallette, sospinta da un forte vento di ponente, si spostò nel tenimento di Manfredonia.
Dal 1851 al 1854 la spesa per la caccia alle cavallette in tutta la provincia raggiunse l’ingentissima cifra di 27.560 ducati. Per coprirla, furono imposti due rattizzi sui terreni a carico dei Comuni, in proporzione alla loro rendita ordinaria.
A distanza di qualche anno le autorità cominciarono a chiedersi se tutti quei soldi fossero stati spesi bene. Lo stesso Intendente notò che qualche cosa non quadrava, mettendo in dubbio l’onestà degli stessi commissari. Nel 1857 scriveva al sindaco:
“La Commissione inoltre, d’accordo con il decurionato…. indicherà la mercede giornaliera da darsi agli operai secondo il loro sesso ed età, che ai soprastanti. E siccome la riuscita delle operazioni dipende dalla fedeltà di questi ultimi agenti subalterni, mentre non di rado la poca buona morale dei medesimi fa andare a vuoto le più provvide e meglio intese del Real Governo; così si porrà tutta l’avvedutezza nella di loro scelta, onde non rendersi responsabili degli abusi che potrebbe commettere. Sarebbe troppo dispiacevole il vedere speso denaro che, con tanti sacrifizi si paga dai Comuni, senza ottenere quei felici risultati, che si ha ragione di attendere”.[6]
Ci sono quindi motivi per sospettare che le commissioni, coperti dagli amministratori municipali pro tempore, approfittassero della lotta alle cavallette per rimpinguare le loro tasche e nello stesso tempo procurare lavoro ai salariati, poiché la cassa comunale languiva sempre, per difetto di introiti e per altri motivi, facilmente immaginabili.
Il comune sangiovannese cercò di far valere in molteplici occasioni un vantato credito di ducati 2.860 per anticipazioni di somme per “la caccia dei bruchi” nel periodo 1851-1856, chiedendo di essere rinfrancato, in più occasioni, dal pagamento delle tasse dovute. Ma ottenne sempre un netto rifiuto dalle autorità provinciali borboniche. Nel mese di marzo 1860 il Comune doveva pagare all’Arcivescovo Mons. Taglialatela un debito di ducati 600, per un “giudizio possessoriale sostenuto financo in sede Governativa” dalla Mensa Arcivescovile di Foggia-Manfredonia, di cui si era occupato anche il Ministero degli Affari Ecclesiastici ed Istruzione Pubblica. Ottenuto dall’Intendente un diniego circa la domanda di dilazionamento del debito, e constatato che lo stato quinquennale e quello di variazione “non offrivano un obolo a poter disporre”, il decurionato obbligò il Cassiere Celestino Lombardi ad anticipare i seicento ducati, con diritto dello stesso “di rivalersi… ai primi introiti che farà il Comune dalla Provincia per credito di ducati 2.860 (per la lotta alle cavallette n.d.r.)… salvo miglior calcolo, cui è parola sotto l’art. 37 dello stato discusso…”.[7]
Il comune sangiovannese non era il solo a vantare crediti per la lotta ai bruchi. La questione, che riguardava anche gli anticipi di spesa per il mantenimento dei “projetti”[8], non del tutto rimborsati, si protrasse per decenni, investendo anche il Governo unitario. Così il bruco diventò un insetto veramente fastidioso e le autorità provinciali se lo ritrovavano continuamente tra i piedi ogni qualvolta i comuni erano chiamati a pagare un rattizzo. Nel 1873 il Prefetto contestava al sindaco di San Giovanni Rotondo che la somma sborsata per rattizzi fino all’anno 1865 ammontava ad appena lire 11.777, anziché a lire 22.850.
L’ignoto estensore di una “Storia brucaria”, datata 20 luglio 1863, paginetta manoscritta da un qualche funzionario della Prefettura di Foggia, con riferimento all’enormità di spese sostenute negli anni suddetti, non risparmiò una sottile ironia nel criticare la posizione assunta dal Ministero degli Interni borbonico che, informato di tutte le misure intraprese, vi aveva plaudito, non mancando di spronare le autorità di “adoperarsi ogni mezzo di esterminio” per quei malefici insetti che, a giudizio della Società Economica all’uopo consultata, “non erasi potuto definire se fossero Barbari o Crociati”.[9]
Nel 1890 il Prefetto Malusardi, studiati tutti i precedenti normativi, volle mettere la parola fine a questa storia infinita, con una circolare a stampa datata 4 agosto. Commentava che, in base alle varie leggi e regolamenti emanati a decorrere dal 1812, il servizio per lo sterminio dei bruchi a tutto l’anno 1865, condotto da Ispettori e Commissioni Centrali, venne sostenuto “per concorso di spesa dagli stessi privati, e dai Comuni”. Perciò, ammesso anche che qualche Comune o privato fosse riuscito a dimostrare di aver contribuito oltre il proprio obbligo, il credito doveva essere vantato verso quei Comuni o privati che avevano partecipato alle spese in misura minore; giammai verso l’Amministrazione Provinciale, che era nata il 1° gennaio 1866. Infatti la Provincia si era assunta il carico di sussidiare i comuni per detto servizio solo a decorrere da questa data, e in determinate proporzioni. Il Prefetto chiuse ogni controversia soggiungendo ai sindaci di convincersi di essere in errore, e di considerare la sua circolare “come definitiva, completa risposta alle reiterate domande di rimborso…”.
(Tratto dal libro Ventiquattro martiri per il risorgimento di S. Giovanni Rotondo di Giulio Giovanni Siena, Edizioni Kronos, San Giovanni Rotondo, 1998)
[1]Archivio comunale di San Giovanni Rotondo (ACSGR) cart. 28, cat. 5, cl.1, fasc. 8, lettera del sindaco di Monte Sant’Angelo del 17 giugno 1852.
[2] ACSGR, verbale del 4 giugno 1852.
[3]ACSGR, cart. 28, cat. 5, cl.1, fasc. 8. Nota dell’Intendenza della Provincia al Sindaco del 5 giugno 1851.
[4] ACSGR, nota dell’Intendenza della Provincia al Sindaco del 18 maggio 1852.
[5] ACSGR, verbale della Commissione brucaria del 29 maggio 1852.
[6] ACSGR, nota dell’Intendenza provinciale del 7 maggio 1857.
[7] ACSGR, delibera del Consiglio Comunale del 1° marzo 1860.
[8] I “projetti” erano i trovatelli.
[9]ACSGR, cart. 28, cat. 5, cl. 1, fasc. 8. Storia brucaria fatta dalla Prefettura di Foggia a di’ 20 luglio 1863.