Nel primo decennio del XX secolo l’ospedale di San Giovanni Rotondo, di cui si ha notizia certa sin dal 1304, aveva cessato di esistere. La chiusura era stata l’epilogo di discordie nate tra gli amministratori del Monte di San Giacomo, che lo gestivano. Seguì per San Giovanni Rotondo un periodo molto difficile dal punto di vista sanitario.
Nel 1917, malgrado l’antichissima vocazione ospedialiera del paese, la Congregazione di Carità , un ente istituzionale di natura assistenziale, bocciò un progetto di un semplice pronto soccorso, presentato dal Dr. Leandro Giuva. Questa volta la causa era la cronica carenza di fondi .
Padre Pio, sebbene il convento si trovasse distante dal paese, era sempre al corrente di tutto. Il frate era l’immagine vivente della sofferenza e capiva bene quanto fosse importante un ospedale per San Giovanni Rotondo.
Oltre alle stimmate, altre malattie inspiegabili avevano accompagnato i suoi giorni, prima e dopo la consacrazione sacerdotale. Le sue febbri superavano i 50° centrigradi. I termometri scoppiavano. I medici assistevano sbalorditi l’eccezionale malato e si chiedevano per quanto tempo ancora avrebbe resistito in quelle condizioni fisiche.
Chi, più di lui, poteva capire le necessità del malato che soffre?
Era ancora l’epoca in cui il vaiolo, la tubercolosi, la pellagra, la sepsi e le setticemie mietevano molte vittime, soprattutto tra i poveri. Inoltre la prima guerra mondiale aveva restituito ai loro cari degli uomini distrutti nella mente e nel corpo, talvolta feriti o mutilati. E se malauguratamente un paziente aveva bisogno di un intervento chirurgico, i parenti erano obbligati a trasportarlo con mezzi di fortuna nell’ospedale di Foggia, distante oltre quaranta chilometri, per strade malandate, senza una garanzia che vi sarebbe arrivato vivo.
Se non si avevano possibilità economiche, si aspettava in casa l’arrivo di sorella morte.
Padre Pio era molto dispiaciuto di questa situazione , finchè nel 1921, tramite un apposito comitato, informò la Congregazione di Carità di volerle donare 50.000 lire per erigere un ospedale.
Ma la sua realizzazione fu ostacolata dalle beghe politiche e dalle lotte personali scatenatesi tra i consiglieri della Congregazione circa l’ubicazione da dare all’ospedale.
Dopo due anni finalmente la scelta ricadde sulla sede dell’ex monastero delle suore Clarisse, situata nel centro storico del paese.
Il progetto di ristrutturazione e di ampliamento del monastero fu approvato nel mese di marzo 1923.
A questo punto i membri della Congregazione deliberarono con entusiasmo l’intendimento di chiamare la nuova opera filantropica «Ospedale Civile Padre Pio da Pietrelcina», per dimostrare agli oblatori che i soldi raccolti erano stati «spesi e devoluti per un ospedale, per opera ed intercessione di questo pio fraticello d’Assisi».
Ma il loro desiderio non trovò il benestare di Padre Pio e l’ospedaletto fu intestato a San Francesco d’Assisi.
Inaugurato il 23 aprile 1925, esso si presentava bello, elegante ed attrezzato; aveva una sala operatoria, due corsie e due camerette riservate, con un totale di venti posti letto, sufficienti per le esigenze più urgenti. Si dimostrò di grande utilità per tutte le classi sociali, con brillanti interventi medici e chirurgici.
Con l’andar del tempo la Congregazione di Carità non riuscì più a coprire le spese di manutenzione e di gestione dell’ospedaletto, i cui bisogni si erano moltiplicati a causa delle continue richieste di ammissione gratuita presentate dagli ammalati poveri, per i quali era sorto.
Questi infelici erano abbandonati da tutti in misere stamberghe oppure sulla strada, dove si dolevano della loro misera sorte.
Il concorso economico del Comune, che non nuotava certamente nell’oro, e i contributi degli altri Enti pubblici si rivelarono del tutto inadeguati. Il deficit di gestione costrinse gli amministratori ad effettuare una graduale riduzione dei servizi.
L’ospedale “San Francesco” funzionò fino al 1938. I cronisti riportano che in quell’anno una scossa di terremoto danneggiò gravemente il fabbricato, dando il colpo di grazia alla pia istituzione. Stranamente, però, l’Istituto Nazionale Italiano di Geofisica e Vulcanologia non ha registrato eventi sismici degni di rilievo sul Gargano né nel 1938, né negli anni immediatamente precedenti e successivi.
E’ possibile quindi che le reali cause della chiusura dell’ospedale siano state la penuria di fondi e l’insufficiente impegno di chi ne avrebbe dovuto assicurare il funzionamento.
La chiusura di questa prima creatura di Padre Pio, appena tredici anni dopo l’inaugurazione, lo addolorò profondamente.
Dove sarebbero stati curati ora i poveri del paese? Chi si sarebbe preso cura di loro?
La sua mente cominciò allora ad accarezzare un sogno. Ed eccolo quindi che lancia una nuova sfida.
Gli uomini e gli enti preposti non erano riusciti a mantenere l’ospedaletto? Lui ne avrebbe costruito uno più grande, capace di accogliere anche i malati dei paesi vicini. Questa volta, però, l’avrebbe affidato in gestione a persone affidabili e capaci, anime buone che la Provvidenza gli avrebbe mandato.
Ben presto la “Casa Sollievo della Sofferenza” si sarebbe stagliata, maestosa, tra le rocce garganiche, grazie alla caparbietà di un Santo e alla generosità dei suoi figli spirituali.
Ma in quanto tempo sarebbe riuscito a realizzarlo? E con quali mezzi?
Nel pomeriggio del 9 gennaio 1940 un generoso manipolo di persone costituì una prima commissione per la fondazione di una “clinica” secondo le sue intenzioni. Si trattava di persone fidate, molte delle quali avevano accettato l’invito del padre a stabilirsi a San Giovanni Rotondo
Tra loro c’erano tre pilastri dell’opera: il farmacista Carlo Kisvarday, originario di Zara, il medico Guglielmo Sanguinetti, venuto dal Mugello, e l’agronomo perugino Mario Sanvico.
Il cappuccino approvò con gioia il nuovo organismo e alla presenza di tutta la commissione esclamò:
«Da questa sera ha inizio la mia grande opera terrena».
Continuando a conversare, si soffermò a parlare dell’Amore misericordioso di Dio e dell’energia che l’uomo deve impiegare nell’amare il prossimo. Poi espresse concetti riguardanti i fratelli che soffrono:
«L’uomo che, superato se stesso, si china sulle piaghe del fratello sventurato eleva al Signore la più bella, la più nobile preghiera, fatta di sacrificio, di amore vissuto e realizzato, di dedizione in corpo e in spirito…
In ogni uomo ammalato vi è Gesù che soffre! In ogni povero vi è Gesù che langue! In ogni ammalato povero vi è due volte Gesù che soffre e che langue!… » [1]Padre Pio e la sua Opera – Ed. Casa Sollievo della Sofferenza- S. Giovanni Rotondo, 1986 – pag. 32
Quella sera il Cappuccino tirò fuori dalla pettorina una monetina d’oro elargitagli da una vecchina sconosciuta e disse di voler essere il primo a fare un’offerta per la clinica. Il suo obolo diede inizio ad una straordinaria catena di solidarietà umana che avrebbe coinvolto poveri e ricchi di tutto il mondo.
Il dr. Kisvarday cominciò ad annotare le offerte su un quaderno.
Il 10 gennaio fu raccolto un capitale di 967 lire, costituito dalle offerte dei membri della commissione e di alcuni fedeli. L’obolo di due lire del povero cieco sangiovannese Pietruccio Cugino, assiduo frequentatore del convento, toccò il cuore di tutti.
Il 14 gennaio 1940 Padre Pio comunicò il nome della clinica: «Sollievo della Sofferenza».
Essa sarebbe sorta vicino al convento, su un terreno donato per metà da una torinese e l’altra metà da una sangiovannese.
Gli inizi furono duri, perché erano consapevoli che occorreva molto più denaro di quello che si riusciva a raccogliere.
Si riuscì a mettere insieme un milione e mezzo di lire. Poi tutto si fermò, a causa della guerra. Per evitare la svalutazione del capitale, gli amministratori acquistarono saggiamente una tenuta agricola in agro di Lucera.
Il 5 ottobre 1946 si costituì la società «Immobiliare Casa Sollievo della Sofferenza S.p.a.» con capitale di un milione, suddiviso in azioni da mille lire, e con espressa rinuncia dei soci ad ogni utile da parte.
Quel giorno Padre Pio assisteva papà Grazio alla santa morte, in casa di Mary Pile. Informato dell’evento, diede il suo benestare.
La posa della prima pietra della clinica avvenne il 16 maggio 1947, con una disponibilità finanziaria complessiva di quattro milioni di lire.
Il terreno prescelto era deserto ed inospitale, buono soltanto per le greggi di pecore e di capre, che si aggiravano tra le rocce in cerca di pregiati ciuffi d’erba.
Una squadra di braccianti locali aggredì la possente roccia garganica con eccezionale vigore . Ben presto le esplosioni dei candelotti di dinamite rompevano il silenzio millenario di quelle contrade.
La distanza dal paese rendeva tutto più difficile. Mancavano l’acqua e le infrastrutture logistiche. Furono quindi installati in loco gli impianti per la lavorazione della pietra e degli altri materiali occorrenti. Ben presto tutto diventò un gran fermento di attività e di voci concitate che impartivano precise istruzioni.
L’idea di costruire un ospedale in quel posto sperduto, con l’esigua somma di quattro milioni di lire in cassa, indusse più d’uno a credere che quei pionieri dai volti scavati dalla fatica e dal sole fossero diventati tutti matti.
Invece ciò rispondeva al piano di padre Pio di effettuare i lavori a tappe, man mano che si raccoglievano i fondi per i vari lotti.
Pur volendo considerare che c’era stata una guerra di mezzo, i sette anni impiegati per racimolare quattro milioni facevano preludere tempi proibitivi per realizzare la clinica, il cui costo complessivo avrebbe superato di gran lunga il miliardo di lire. Ma una forza sconosciuta spingeva tutti a proseguire nell’intento.
L”Italia del dopoguerra era in gran parte da ricostruire, materialmente e spiritualmente, e questo rendeva tutto più complicato. Occorreva un vero miracolo, perchè il sogno di Padre Pio potesse avverarsi.
E il miracolo sarebbe avvenuto con l’arrivo a San Giovanni Rotondo di Barbara Ward.
Note
↑1 | Padre Pio e la sua Opera – Ed. Casa Sollievo della Sofferenza- S. Giovanni Rotondo, 1986 – pag. 32 |
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