Del libro recensito non restano che pochissime copie ma una versione digitalizzata è leggibile online in questo sito (link).
L’autore
Recensione del libro
Giulio Giovanni Siena, VENTIQUATTRO MARTIRI PER IL RISORGIMENTO DI SAN GIOVANNI ROTONDO, Foggia, Kronos, 1998.
Questo è un libro che merita di essere letto non soltanto dal cittadino di San Giovanni Rotondo, ma da chiunque sia interessato a conoscere la storia vera del doloroso e tragico epilogo della lottata per l’Unità d’Italia, svoltasi nel Mezzogiorno.
Si tratta di una storia che in alcuni casi, come a Bronte in Sicilia e a San Giovanni Rotondo, ebbe momenti eccezionalmente critici e raccapriccianti: una storia travisata dalla retorica del Risorgimento, bugiarda e ossessiva fino agli anni del fascismo, nonché dall’interesse di tenere coperte inconfessabili responsabilità di statisti, politici, capi militari, ecclesiastici del tempo.
Il libro di Siena costituisce un grosso squarcio in una falsa realtà.
L’autore offre una dovizia di documenti, acquisiti da una spulciatura minuziosa di carteggi di archivi pubblici e parrocchiali che lui, scevro da spirito partigiano, utilizza diligentemente, con una sobrietà di commenti, come se fosse trattenuto dal timore di offenderne l’autenticità e alterarne il senso.
Nel Mezzogiorno in generale, e specialmente in Capitanata, dove la borghesia agraria, mercantile e professionale era meno consistente e affermata, la causa dell’Unità d’Italia non godeva di larghi consensi, anche perché buona parte dei liberali, legati ai Borboni, erano favorevoli a un regime costituzionale ma contrari all’unità d’Italia.
D’altra parte, alle plebi contadine, tradite da ex baroni e da galantuomini, nella loro aspirazione alla ripartizione delle terre demaniali, disposta sin dal primo decennio dell’Ottocento da re Gioacchino Murat, gli artefici dell’Unità d’Italia non promettevano che si sarebbe resa loro giustizia.
Ciò esasperava le plebi, particolarmente a San Giovanni Rotondo, dove le usurpazioni di terreni demaniali a danno dei cittadini poveri avevano superato i limiti della sopportabilità e tutte le promesse e tentativi di interventi riparatori venivano vanificati dalla resistenza degli usurpatori, spesso protetti dagli amministratori comunali.
Giulio Giovanni Siena dimostra che nel 1844 furono accertati 219 occupatori e dissodatori abusivi di terreni comunali e che, tra il 1865 e il 1875, saranno accertate usurpazioni per 401 ettari.
“Le usurpazioni finora descritte – egli scrive – sono sufficienti per intuire quanto forte fosse l’attrito, e quindi l’odio, tra allevatori ed allevatori, tra allevatori e dissodatori-occupatori del demanio, nonché tra gli stessi occupatori che si contendevano la terra”.
Intanto il clero, irretito dall’interesse di dover difendere, in linea con il papato, il potere temporale della Chiesa, era quasi interamente schierato a difesa del regno delle Due Sicilie, convinto peraltro che questo non era più arretrato di quello sardo, il che sarà poi riaffermato da non pochi storici ed apologeti dei Borboni.
Sicché, in tutto il Mezzogiorno e particolarmente qui, la caduta di re Francesco II non fu salutata come il risultato di una lotta di popolo per la liberazione della tirannide e dalla barbarie, ma come conquista militare subita da questa parte dell’Italia ad opera dei “Piemontesi”, nemici della Chiesa e anche dei contadini. È in questo quadro che esplode l’insurrezione plebea di San Giovanni Rotondo, nell’ottobre 1860, fra un susseguirsi di rivolte che per più giorni investono Mattinata, Monte Sant’Angelo, Cagnano Varano, San Marco in Lamis e altri comuni.
La scintilla, in una situazione già esplosiva, viene offerta da una rappresaglia assurda e feroce, composta dai nuovi poteri governativi e militari insediatisi a Napoli, contro sbandati del disciolto esercito borbonico.
Pagano con la vita ventiquattro innocenti, massacrati da rivoltosi inferociti, dei quali alcuni sono passati per le armi, numerosi altri subiscono durissime condanne.
Siena richiama giustamente una importante sentenza di Benedetto Croce: “La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice: e giustizia non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento”.
Michele Magno