Presentato a San Giovanni Rotondo il nuovo libro di Michele Totta
Lunedì 21 marzo 2011, nell’auditorium della biblioteca civica “Michele Lecce” di San Giovanni Rotondo è stato presentato il libro di Michele Totta “Il Viaggio e la Parola – Lu Viaje e la Parola: scene garganeche”. Si tratta di liriche in vernacolo con traduzione in italiano a fronte. Per la presentazione non poteva essere scelta data più appropriata, fatta coincidere con la Giornata Mondiale della Poesia istituita dall’UNESCO nel 1999, e con l’inizio della primavera, musa ispiratrice di scrittori e poeti. Hanno partecipato all’evento il Prof. Salvatore Antonio Grifa, che ha introdotto e coordinato i lavori ed è autore della postfazione del libro, l’apprezzata relatrice Prof.ssa Rosa Di Maggio e il Prof. Matteo Coco di San Marco in Lamis . Tre le voci che hanno animato i versi poetici: Grazia Gravina e Andrea Lazzaro Maria Savino per le poesie dialettali sangiovannesi, il giornalista Antonio Del Vecchio per quelle tradotte in dialetto rignanese e lo stesso Matteo Coco per le poesie in dialetto sammarchese. La bravura dell’autore e dei tre relatori, l’intensità interpretativa dei lettori, la presenza in sala di un folto e qualificato pubblico hanno sancito l’indubbio successo della manifestazione. Per chi voglia approfondire, si trascrivono qui di seguito gli interventi della relatrice e dell’autore del libro.
Relazione della Prof.ssa Rosa Di Maggio
Parlare di poesia in questo momento storico è, secondo me, oltremodo significativo ed interessante. Oggi, infatti, ricordiamo e festeggiamo i 150 anni dell’Unita d’ltalia, a conclusione della quale M. D’Azeglio ebbe a dire “L`Italia è fatta. Ora bisogna fare gli Italiani” e penso che almeno linguisticamente tale obiettivo sia stato raggiunto. Ma nello stesso tempo si parla di Federalismo e non intendo parlare di Federalismo Fiscale, municipale quanto del pericolo di un Federalismo Linguistico. Si sentono ,infatti, elevarsi sempre più spesso delle voci politiche che propongono un ritorno all’uso dei dialetti e che per facilitarne la diffusione diventino materia d’insegnamento nelle scuole. Su questo mi trovano perfettamente d’accordo, ma ad una condizione: che il recupero dei linguaggi parlati non diventino un altro segno di distinzione geografica e di divisione tra Nord e Sud, tra Centro e Nord, ma che siano invece il mezzo per recuperare le tante storie locali con le tradizioni, usi e costumi perché l’armonia dell’unità nasce dall’insieme delle diversità come in una orchestra o in un coro, dove la diversità di strumenti e di voci creano l’armonia.
E penso che su questo potremmo essere tutti d’accordo, perché è sotto gli occhi di tutti che i dialetti stanno scomparendo, che presso le giovani generazioni non solo il dialetto non è parlato, ma addirittura non sempre è capito ed è grave perché si corre il rischio che la Letteratura in dialetto, la poesia in vernacolo diventino una privatissima espressione di interiorità fuori dalla storia, che i dialetti diventino espressione di un mondo scomparso o in via di sparizione. Invece i dialetti vanno difesi, conservati in quanto nella loro immediatezza esprimono un registro linguistico più aderente alla vita reale e stabilisce un rapporto più stretto tra poesia e lingua quotidiana, anzi tra poesia e popolo, perché ha in sé la capacita di interpretare l’intera vita di un popolo con i suoi usi, costumi e sentimenti . La parola che è il mezzo di comunicazione più potente porta alla memoria, evoca, fa ricordare fatti, eventi, emozioni che hanno avuto importanza nella nostra vita, che ci hanno segnato ed è allora che il dialetto diventa lingua poetica e che esprime i sentimenti con semplicità ed efficacia.
Perciò la poesia in dialetto non è né meno bella né meno importante di quella espressa in italiano. E’ una poesia diversa. E‘ un genere letterario vero e proprio — afferma con forza P.P. Pasolini — La poesia dialettale ha struttura , ritmo musicalità, regole atte ad imporsi come genere letterario. E non è il solo a sostenere questo. Vi sono voci autorevoli, poeti, prosatori, critici del passato e del presente . Lo stesso P. P. Pasolini dalla critica è stato ed è esaltato per la sua produzione poetica in dialetto friulano più che per quella in italiano e così Trilussa, Gioacchino Belli, Carlo Porta, Salvatore Di Giacomo, che ha fatto della poesia dialettale un canto lirico eccezionale; e i prosatori quali Gadda, Pirandello, Goldoni, E. De Filippo e tanti altri.
Perchè in fondo la poesia che cos’e’? Se non il cantare della natura, la riscoperta del mondo rurale, il recupero del passato e dell’infanzia, alla quale dobbiamo ciascuno di noi il nostro destino di uomini. Pavese afferma “Tutto è nell’infanzia, in essa avvengono cose che ricevendo un valore assoluto, divengono “mitiche” , rimangono per sempre alla base delle esperienze dell’adulto. Questa esperienza è personale, ma nello stesso tempo universale”.
E’ il percorso che ha fatto Michele Totta, l’autore della raccolta che presentiamo questa sera: è tornato alle sue radici, alla sua infanzia, alla nostra civiltà contadina e lo ha fatto con quel linguaggio che un altro grande contemporaneo, il nostro conterraneo, e dico nostro, perché tutti sappiamo che il poeta come la poesia non appartiene solo al luogo che gli ha dato i natali, ma appartiene al mondo intero. Parlo di Joseph Tusiani, il quale, amante e cultore del dialetto, porta attraverso il dialetto sammarchese, il linguaggio garganico in tutto il mondo, dice “ll linguaggio dialettale si assorbe con il latte materno e diventa l’essenza stessa del nostro vivere e parlare. Nessuno ce lo insegna o celo suggerisce”, e quando sentiamo una parola, essa evoca tutto un mondo.
La raccolta che oggi presentiamo porta il titolo di “Il Viaggio e la Parola”: paesaggi garganici. E’ una poesia ancorata alla realtà nella scelta dei temi, degli ambienti, della lingua, ma e anche interpretazione simbolica e metaforica della realtà stessa, dove la descrizione di questo mondo reale non è l’obiettivo principale, bensì il mezzo per mostrare una realtà ulteriore, “mitica”.
ll titolo stesso è un simbolo, una metafora, dove per viaggio intendiamo il percorso della vita umana, il cammino esistenziale dell’uomo (esempi ne sono la Bibbia con l’Esodo; la Divina Commedia) e la parola il mezzo di cui si serve il poeta per cantare di questo viaggio e ne è il filo conduttore. Il titolo precisa con l’articolo determinativo le due parole viaggio e parola e questo è importante, perché sottolinea che il viaggio di cui parla non è un viaggio qualsiasi, quello che ciascuno di noi fa e la parola è il mezzo che rende possibile il canto dell’esistenza umana unite dalla congiunzione e creando un binomio inscindibile tra due doni divini. Cosa sarebbe il viaggio esistenziale dell’uomo se non avessimo il dono della parola per cantare di esso? E poi ci sono due punti e paesaggi garganici per dire “Il viaggio e la parola cioè paesaggi garganici” e questo a voler sottolineare che intende parlare dell’uomo garganico divenendo anch’essi simbolo della tenacia, della caparbietà e della forza dell’uomo ancorato alla roccia dura del Gargano.
Temi, ambienti, personaggi riportati alla luce dal Porto Sepolto dell’anima del poeta, sono tanti quadretti racchiusi in una cornice, che è una voce narrante, la voce della nonna, simbolo della generazione passata. La raccolta, infatti si apre con la presentazione di questo simbolo, descritta qual’era ai suoi tempi per poi presentarci con la lirica seguente “Lu vi” (lo vedi) il nipote, simbolo della nuova generazione progredita, che conosce le nuove tecniche e i nuovi linguaggi, che parla l’italiano ed è compreso dal Nord alla Sicilia, ma che usa parole fredde, parole che sono “lama senza filo” perchè parole senza il dialetto e, si chiude con la lirica ” ll ricordino” (Lu suvenir), che definirei il testamento spirituale, in cui viene affidato il messaggio di non dimenticare la propria lingua, la propria storia, le proprie radici.
In questa cornice pregnante, è la poesia ” Figlio mio” (Crejature miie) dove il poeta sottolinea i progetti, i sogni dell’uomo, per i quali farebbe di tutto, ma che lo scorrere inesorabile del tempo ridimensiona e a volte annulla; dietro a quei sogni spesso l’uomo perde di vista le cose più importanti ed è proprio in questo, dice il poeta, la sua fragilità. Cosi pure nel “Garofano azzurrino” (Jaròfele azzurre), anch’esso simbolo dell’esistenza dell’uomo: un garofano attaccato con tenacia ad un pugno di terra arida, si striscia, per riscaldarsi, ad un ferro arrugginito, che regge un pezzo di intonaco pendente da un balcone cadente e di là, dalla sua precarietà, il garofano contempla lo scorrere della vita e con la sua corolla tesa verso il cielo, chiede solidarietà. E chi rappresenta il garofano se non ciascuno di noi?
Mentre nella lirica “Il passerino parlante” (Lu passarine cecerenuse) è espressa l’altra faccia della realtà: quella della lotta per la sopravvivenza. Dove due scene si contrappongono. La lirica, infatti, si apre con il passero, che finalmente ha imparato a volare e che può libero immergersi nell’immenso cielo alla scoperta e alla conquista del mondo. Spazia felice e sicuro di sé nell’immenso cielo, ma, all’improvviso, scorge una realtà diversa, fatta di violenza, paura, morte che lo induce a dire “Forse sarebbe stato meglio se non avessi imparato a volare”. E’ la situazione psicologica che si trovano a vivere tanti adolescenti. A mio parere, è questo ciò che vuole esprimere il passero simbolo del ragazzo che si affaccia alla vita con l’entusiasmo e l’innocenza della sua età.
E poi segue la poesia “il fuso e la lana” ( Fuse e lana) dove vi è l’esaltazione del faticoso,ma operoso lavoro della donna nella conduzione della casa. Simbolo di questo lavoro il fuso, strumento indispensabile nella mani della donna, nella civiltà contadina, per il menage famigliare, il fuso quindi e il filo lungo, sottile fragile, ma che le abili, esperte e sagge mani della donna sapeva riallacciare per continuare a filare.
E cosa dire della magia, che ciascuno di noi si porta dentro del Natale, quando nelle case non brillavano gli alberi di Natale, ma in un angolo troneggiava il Presepe che noi avevamo aiutato a costruire, affascinati dalla magia e dal mistero di quel bambino in una grotta, che andavano a visitare i pastori e i magi, bellissimi sui loro cammelli guidati dalla stella polare e che M. Totta simboleggia con i giovani padri che si recano gioiosi a registrare il loro bambino appena nato. Speranza del futuro e della vita che continua e del domani.
Pavese dice: “ le sofferenze della vita possono essere lenite con la memoria dell’infanzia attraverso la rievocazione di luoghi e personaggi”. E questo è detto splendidamente nella poesia “Anima e Pietra” (Jànema e Prata). Componimento lirico, che é un inno al roccioso Gargano del quale siamo figli e con esso un tutt’uno “anima e corpo” . Non si può vivere separati, ovunque andiamo ce lo portiamo dentro, perché il corpo ha bisogno della sua anima per vivere e l’anima di un corpo. La nostra anima è incastonata nella dura pietra ed è lei che tiene unita e salda la roccia.
La raccolta si chiude cen il “Ricordino” (Lu suvenir) in cui, come dicevo, la voce parlante raccomanda, supplica i suoi figli, i figli della nuova generazione affinchè non dimentichino il passato, la storia dei padri, i loro insegnamenti e soprattutto di tenere stretto stretto e difendere il regalo divino che i nostri avi ci hanno lasciato: Il dialetto
Intervento dell’autore Michele Totta: come è nata la sua creatura
Perché ho scritto?
I versi de “ll Viaggio e la Parola”, mirano a recuperare i significati più intimi di vita, tra infanzia e adolescenza, quando con la famiglia, da San Marco mi sono stabilito a San Giovanni Rotondo. Il pane il futuro sono qui. Qui la lingua nuova delle scene garganiche; la sorprendente luce; forse una traiettoria poetica. Il mio passo è pronto ad ogni avventura, sul piano umano e su quello dello spirito. Semplice, povera, nostalgica, l’Italia degli anni cinquanta. I poveri, come sempre, scelgono per loro dote la semplicità. Ricchi sono pochi. La guerra ha toccato anche loro. C’e nostalgia dei monarchici per re Umberto, esule in Portogallo. La democrazia, è da inventare. Come le nostre vite.
In questa antologia minima, ho inteso perlustrare, quanto di più caro nelle viscere della mia storia. Ho attivato persone affetti, il godimento di natura e cose, stagioni o attimi, costumanze, attese che conservavano un soffio vitale. Perciò la nuova lingua vernacolare, il sangiovannese, augusta favella, l’ho voluta alleata. Ho scritto coi limiti, che devono essere riconosciuti ad ogni forma di comunicazione. Non tutto si può compiutamente narrare. Non tutto è disponibile e franco. La realtà, come l’amore, capita di descriverla. Nel momento di percepirla, toccarla, si dilegua essa, perché abita di la, di quanta se ne scopre. L’èpos, l’epopea, la parola consapevole è a — bis — so; chiama giù, allo spogliamento, alla verità del nostro essere, al mistero. Dal fondo, ci restituisce alla vita, con una segnatura di poesia, di arte, di desiderio tutto umano del bello.
Per me, scrivere è o diventa, un illimitalo desiderio di fuga, con la parola, per la parola. Fuga in cui la mente (il platonico auriga) non si isola, ma cerca la zolla non ostile. Preserva se stessa dal vuoto che incombe; dalle parole vane; dal fermo dei sentimenti; da arse identità. Decadenza, beveraggi a vocaboli stranieri, italica saccenza, sproloqui, che in bocca a certi «maestri di finta comunicazione» passano per anima della nostra contemporaneità.
L’idea di far conluire nella raccolta, brani da altri dialetti garganici, premia due esigenze. La prima, motivi di affetto. La seconda, la necessita di mettere in risalto le diversita e la fresca vena di consonanti, di ritmo, la spigliatezza delle vocali, la rugosità degli accenti; anche l’incertezza della sintassi nelle nostre contrade. Un territorio ristretto, che avendo condiviso la stessa umana vicenda, conserva profondi e netti, i caratteri di gerghi ancora vivaci.
Con questi elementi, il libro è biografico in parte. Recupera l’origine, la caritas loci; il volto antico e moderno della parola garganica; la purificazione o “catarsi” che la storia impone. Forse regala, qualche orma di etica.
Movendo i sassi della mia fanciullezza, ho trovato alfabeti generosi come acqua innocenziale, sotto. Ed ho bevuto. Ed ho intinto il calamo.
Ecco tutto.
Michele Totta