Riceviamo dall’autrice e volentieri pubblichiamo il racconto “Corri, Ragazzo, Corri” con cui la scrittrice Grazia Centra, nativa di San Giovanni Rotondo e residente in Foggia, rievoca i feroci bombardamenti del capoluogo del 22 luglio 1943.
Il racconto ha vinto il premio “Libellula d’oro” nel 2016.
Segue la recensione di Michele Totta che dal racconto trae ulteriori spunti di riflessione sulle atrocità delle guerre.
Grazia Centra è laureata in filosofia con una tesi storica su Carlo Cattaneo.
Ha cominciato giovanissima a pubblicare, su giornali e riviste locali, racconti e novelle, Ancora diciottenne ha collaborato, come corrispondente provinciale, al periodico “Prospettive Meridionali” edito da Mondadori.
Sposata e con un figlio, ha dedicato lunghi anni a famiglia, scuola, associazioni culturali, in particolar modo alla Fidapa in seno alla quale ha ricoperto negli anni diversi incarichi ed è stata a lungo responsabile della Commissione Cultura. Rimasta sola dopo la morte del marito, ha ripreso a scrivere. Ha pubblicato due romanzi, I Soli Spenti (ultima edizione: Edizioni del Rosone, 2017) che è stato adottato come testo di narrativa presso molte scuole, medie e superiori, e Tra noi due l’oceano (Bastogi Editrice, 1998). Le due opere, che hanno ottenuto riconoscimenti più che positivi di critica e di pubblico, sono state citate, corredate da un ampio studio critico a firma di Lia Bronzi, nella “Letteratura Italiana – Poesia e Narrativa dal Secondo Novecento ad oggi”.
Dopo lunghi anni di silenzio, nel 2012 ha ripreso a scrivere e ha dato alle stampe un libro di racconti (Sulla Soglia del Tempo, Edizioni del Rosone, 2013). Sempre dal 2012 partecipa, a concorsi letterari ricevendo ogni anno notevoli riconoscimenti fino ad ottenere, nel 2016, con 50 & Più, il premio massimo, la libellula d’oro, con il racconto che qui si riporta ed è entrato a far parte integrante della rivista Coriandoli.
Corri, Ragazzo Corri
Racconto di Grazia Centra
Piero ha esitato a lungo, per giorni e giorni, prima di prendere, proprio all’ultimo momento, il treno che l’avrebbe condotto da Milano a Foggia.
Quando con un fischio lungo, lacerante, il treno si fermò sul primo binario, lui scese, apparentemente tranquillo, insieme con gli altri. Nell’attraversare i lunghi sottopassi della stazione, avvertì un brivido freddo attraversagli la schiena. “Di chi era quella mano?” si lasciò sfuggire a mezza voce. Due giovani si girarono a guardarlo, lui chinò la testa e affrettò il passo. Raggiunse il centro della piazza e si abbandonò su una panchina di pietra levigata. Il borsone poggiato a terra tra le gambe divaricate, i gomiti premuti sulle ginocchia, la testa tra le mani, gli occhi a fissare l’ombra degli alberi che il fruscio leggero del vento faceva saltellare sul grigio dell’asfalto. E se ne stava, immobile, ma dentro, come aveva temuto, correva. Ed era un correre sfrenato per agganciare al momento presente l’eco di una voce lontana, la voce di Lia: “Corri , ragazzo, corri “. Chiuse gli occhi per concentrarsi meglio, ma i suoi pensieri disubbidienti irruppero e gli proiettarono per intero il filmato di quel giorno, snodato in rapidi , incancellabili fotogrammi. Soltanto di Lia aveva poche immagini spezzate, forse perché lui non l’aveva veduta mai veramente, protetta com’era dallo schermo dei suoi incredibili occhi verdi.
Era il 22 luglio. Un luglio di molti anni prima. Era quel luglio di morte del ’43.
Quel mattino Foggia respirava libera. Il fumo degli incendi dei giorni precedenti si era dissolto e se n’era andata anche quella polvere acre che pizzicava il naso e faceva starnutire. Sembrava proprio un giorno di grazia e la gente si riversò fiduciosa nelle strade .
Arrivò all’improvviso, a mattino inoltrato, quando nessuno più se lo aspettava , quell’assordante, frenetico scampanio. Le campane, tutte le campane di Foggia scampanavano scampanavano scampanavano e subito le strade, tutte le strade della martoriata città rientrarono in guerra. Nel cielo riarso, anch’esso sorpreso, anch’esso incredulo, i bombardieri inglesi col loro carico di morte e intorno la confusione demente, le grida già note: “ai rifugi, presto ai rifugi,” si gridava da ogni parte. La gente sciamava per le vie in tutte le direzioni . Molti correvano verso la stazione, tanti altri cercavano rifugio nella villa comunale, ma due caccia, sfuggiti alla contraerea, si abbassarono. Puntarono i civili in fuga. Ta-ta-ta…Ta-ta-ta… Ta-ta-ta… Poi si allontanarono. Si allontanò anche il rombo dei bombardieri e il piccolo Piero, uno scricciolo di appena undici anni, lasciò il portone dove aveva trovato riparo. Piero: le braccine smilze, le gambucce tanto stecchinette da muovere a pietà, il ciuffettino biondo che gli rubava gli occhi e un faccino che aveva il colore livido della fame. Ma nessuno ci faceva caso, nessuno li trovava strani quel colore e quella magrezza, perché quelli erano gli anni dei viveri razionati, delle luci oscurate, delle giacche rivoltate , dei pantaloni rattoppati, delle scarpe di cartone sfondate, erano gli anni dello strazio, dello sgomento, della vita allo sbaraglio.
Il piccolo Piero, con i pugni stretti nelle tasche dei suoi pantaloni adulti, vagava senza meta per le strade del centro, guardandosi continuamente intorno. Si ritrovò inaspettatamente in Piazza Lanza e dopo un attimo di esitazione si avviò verso la villa, ma con una lentezza insolita per lui. Le colonne del pronao erano mutilate, i cancelli divelti . C’era un silenzio innaturale all’interno , un silenzio che sapeva di abbandono, di vita intera che se ne andava. Era un silenzio più devastante del ta-ta-ta delle mitragliatrici e del fragore delle bombe. Poco lontano c’era il suo preside, giaceva bocconi, colpito alla schiena, le braccia protese in avanti , una mano a stringere il cordolo di un’aiuola di rossa salvia polverosa.
Si risentì il rombo dei bombardieri e l’aria di nuovo si riempì di fuoco, ma non di urla strazianti ché la gente aveva ormai raggiunto i rifugi o era rimasta per via, il terrore fissato per sempre nelle pupille dilatate e immobili .
Lui si teneva stretto con forza al tronco di un alberello stento. Lia lo raggiunse e senza fermare la sua corsa verso la stazione, gli gridò “che fai, Piero? corri, ragazzo, corri”. E lui prese a correre . C’era la fontana al centro della piazza, anch’essa mutilata, senza acqua , foglie umide, sporche sul fondo viscido. Sulla destra mucchi di macerie e c’era ancora il palazzo dell’acquedotto, e quello con l’ufficio postale.
Ha raggiunto il lungo viale della stazione. Si ferma: attimi di sbigottimento. Procede lento ora, di traverso , sempre più attento a dove mette i piedi , di qua, di là, zig zag, zig zag. Inciampa , i vetri gli lacerano le gambe. Si ferma. Si rialza. Si trascina. Si porta dietro scie sanguinose. Alza le mani a tapparsi le orecchie, come vede fare agli altri, per non sentire i lamenti dei feriti che implorano pietà. Nessuno ferma la sua corsa per aiutarli, ognuno è preso dalla pietà per se stesso. Frena l’istinto di andare rasente i muri: crolli improvvisi, dai palazzi sventrati dalle incursioni precedenti, fiamme e fumo da quelli appena feriti, fiamme e fumo a oscurare il sole. La contraerea tace, i bombardieri ormai al sicuro si abbassano si abbassano si abbassano, rasentano i tetti, le case tremano, sobbalza l’asfalto, le bombe assordano. Lui è steso tra i corpi, la testa protetta dal petto di una donna immobile accanto a lui.
Poi di nuovo il silenzio.
Piero ha quasi raggiunto il piazzale della stazione . C’è una folla urlante, animalesca che impreca , insulta , si cozza, inciampa, percuote per farsi strada verso i rifugi.
Ecco Lia, là, là, tra la folla, agita verso di lui la sua piccola mano.
Poi quelle grida, grida agghiaccianti: ” quel trenooo .. allontanate quel trenooo … via quel trenoooooooo… quel treeeee.. ”
Il cielo s’illumina , tutto l’orizzonte si accende. La benzina infiammata fuoriesce , inonda i binari, li colma, li supera, sale sui marciapiedi, scende per le scale che portano ai sottopassi, raggiunge i “rifugi della salvezza” dove erano corsi fiduciosi più di duemila cittadini di tutte le età.
C’è lui e pochi altri , ma lui non piange, guarda soltanto. Gli occhi ormai adulti non si staccano dal fumo nero e denso, dalle fiamme che si alzano a ondate da quella che era stata, fino a pochi anni prima, l’importante stazione ferroviaria di una cittadina tranquilla e prosperosa.
C’è una camionetta stracarica di tedeschi. C’è una piccola mano, recisa al polso, sopra la faccia arsa di un vecchio. C’è una carrozza rovesciata a rallentare la corsa. C’è un cavallo steso, le froge dilatate, i liquidi occhi sbarrati – C’é anche lui, sì, proprio lui, Piero, sulla camionetta, piccolo, smarrito, stretto tra due giovani soldatini. C’è l’aperta campagna con i colori del sud cotti dal sole. C’è La camionetta al riparo sotto un albero. C’è ancora lui, seduto sul terreno che l’inclemente calura di luglio ha reso stopposo; è appoggiato al secco pietrame di un’estesa, serpeggiante macera. Alle sue spalle filari di ulivi saraceni dai voluminosi tronchi contorti e dalle antiche radici scoperte dal vento e dalla pioggia .
Davanti a lui, sull’altro lato della strada, spinose piante di rovi e la perenne, altissima ferula dalle ricche ombrella che taglia in fette d’azzurro lagunare l’orizzonte lontano. A oriente, verso il golfo, il cielo si va rapidamente oscurando. La sera avanza veloce e l’ultimo sole, avviluppato in un trionfo di luce, si tuffa, come tutte le sere, dietro il roccioso Gargano. Nell’oscurità ormai completa, solo le rosette di fuoco delle sigarette denunciano la presenza dei tedeschi appiattiti nelle cunette.
Nella sterminata pianura del Tavoliere, la carezza lieve del vento ridesta profumi di foglie nell’ora più nera e il piccolo Piero, addormentato sul terreno stopposo, sogna risvegli di prati fioriti .
“Che idiozia la guerra”, dice Piero, l’illustre docente universitario seduto su una panchina di pietra levigata. Si asciuga lentamente il viso, lentamente si alza e a passi lenti si avvia verso la Sala delle Conferenza dove terrà una relazione sui tragici eventi che portarono, in Italia, settant’anni fa, alla proclamazione della Repubblica.
GRAZIA CENTRA
Recensione di Michele Totta
China di paura, percezione di catastrofe, scenario di fuoco, inchiodano Foggia, città del sud, al martirio nei bombardamenti il 22 luglio del ’43, da parte degli Alleati inglesi. Unica via di scampo pare offrirla Grazia Centra, autrice del racconto storico, breve ma intenso “Corri, Ragazzo, Corri”. Il titolo vuol salvare Piero, testimone-bambino innocente e la Comunità foggiana. La guerra, però, non risparmia nessuno, non guarda in bocca agli innocenti. E’ così? Così è.
Il dramma della guerra accende la narrazione del protagonista Piero, professore reduce nella sua città Foggia per una testimonianza sui giorni infausti di quel luglio. Umano fino a incantare, il soliloquio senza pause, colmo di grazia, sulla panchina. Grazia, nelle immagini fatte sangue; grazia, che preme in frenesia d’ali nel raccontare; grazia, nel borsone che accompagna il viaggiatore. Pare certo, abbiamo bisogno di vivide immagini per ricordare; per animare la brace sia del piacere che del dolore, se no prende corpo la dimenticanza, o peggio, la rimozione. Il racconto della scrittrice garganica, autrice dei romanzi Soli spenti (Bastogi, 1995), Tra noi due l’oceano (Bastogi, 1998), Sulla soglia del tempo – Racconti (Edizioni del Rosone, 2013), anima una città ferita a fondo, ma non doma, cerca i gesti reconditi del sacrificio. E tutto riferisce alle generazioni che verranno, poiché il ‘900 prima della nascita della Repubblica, è segnato da intime ferite della storia. Obbliga anche, ci pare, a sintagmi nuovi, ad analisi di riflessione e scrittura, inteso che il passato recente, pur privo di risentimenti, non può tornare; esso per natura è diventato padre del presente e nonno del futuro.
I caccia inglesi a volo basso, le sirene dei rifugi, la calca verso i ripari, le divise nere dei tedeschi, gli ordini militari urlati, lo scarso cibo, i morti ammucchiati, l’afa irritante, l’insonne incubo notturno, il viavai degli sfollati… sono al nostro fianco icone intense sinistre, d’oppressiva compagnia. Mentre le immagini tornano, prende corpo, amplificato, il teatro del suono: il “Ta-ta-ta” diventa big-bang ineludibile del passato, e immerge nei fragori del destino. Devi passare prima o poi, sulle pagine oblique della storia; non puoi far finta di niente, come se nulla fosse accaduto. E quel che non hai voglia di leggere, puoi cominciare a scrivere o riscrivere, come vuole Rilke. Tutte le cose obbediscono in effetti alla mutazione; e pure le percezioni e i giudizi delle persone cambiano: Scrivere e riscrivere è un dono numinoso, divino, della memoria, che regala in continuo i suoi fermenti e le sue ore.
Per ricordare abbiamo bisogno di immagini, vivide. Allora la memoria diventa la più complessa delle operazioni, perché associa persone, luoghi, ambienti, cose, destini, fantasmi, certezze, incertezze. Ma sorretta in questo momento dall’onda musicale degli eventi, la memoria fa di più. L’onda sonora scandisce il nord e il sud, l’est e l’ovest di geografia smarrita, e ti domandi “dove sono, che ci faccio qui?” Anche il sonoro della guerra diventa cruda imago, immagine penosa della più assurda tra le umane arti. Nel canto di mitraglia, troviamo il conto di distruzione e tragedia, di imperi, stupide potenze, miti passeggeri. Nella mente di chi sotto le bombe e nel sottopasso alla ferrovia è stato, indelebile vibra come fragore la morte. La “piana” Foggia si è mutata in collina… di cadaveri!
Tutta sul binario della memoria, dunque, la trama del racconto. La memoria che per l’uomo torna a essere l’agostiniano ventre, chiamato adesso a digerire non trionfo e fortuna, ma dolore e abiezione. Memoria complessa, a strati vertiginosi, alleata sempre in bilico, tra avvisi di paura e monizioni della fine; tra vivenza e commiato; fortuna e speranza; presente e futuro. Sembra il dio nella macchina quel “Ta-ta-ta” secco, che detta ogni passo, ogni attimo, al ritmo di chi la battaglia la vive sulla propria carne. Quel “Ta-ta-ta” aereo – orrido tuono e fonema di sillabe, pioggia di fiori di zolfo – non sconvolge solo la vita e i timpani, ma echeggia dentro l’anima, con l’urto di un destino segnato. Echeggia sulla china d’un inferno non necessario: Il farsi guerra degli uomini! “Infallibile sega” aveva definito Hitler l’orrenda mitraglia, l’implacabile arma.
La penna di Grazia Centra, dopo la tregua delle armi, dopo il lungo assaggio di pace, ci consegna luminosa e impavida la coscienza di Piero, l’Ulisse necessario tanto alla Storia quanto alle piccole storie, giacché sono le piccole storie di ognuno, che poi aiutano la grande storia a emergere (M.Iafelice). Piero è il testimone scampato alla tragica estate, all’innominabile orrore. Allora a chi giova dimenticare? Era il caso di dimenticare l’estate del 1943? Il mondo ha bisogno di aggiustamenti verso la concordia, per tenere vivo il disprezzo delle armi. Meglio la pace, ove tutti si godono il grano, l’amore e il riposo, la stola di stelle e comete.
Il racconto, improntato alla stile hemingwayano dei Quarantanove racconti, con frase breve, tagliente, è privo di abbellimenti retorici. La Nostra romanziera esalta le ferite, della carne e della mente. Quelle sì, vanno esibite, con l’orgoglio di chi nella catastrofe generale si è salvato.
“Ta-ta-ta” diventa il sonoro della nuova sinfonia del destino, che in una tempesta di proiettili, esegue e perpetua lo sgozzamento di popoli. “Ta-ta-ta” diventa sillaba amara. “Ta-ta-ta” insieme a “Kaputt” sono il comando facile del fuoco sugli inermi. Ancora per poco. Il conto alla rovescia per lo scenario dell’atomica si percepisce, si annusa in cielo. “Ta-ta-ta” continua a ripetersi come sillaba amara dei tiranni e dei comandanti, per cancellare generazioni di soldati, città, culture. “Ta-ta-ta” continua a vibrare come onda sismica, profonda, tormentosa. Io lo ricevo oggi come fresco di parola narrante; come musica calmante, che nello spirito entra a piacimento e poi esce. Lo ricevo come nostalgia, tormentoso viaggio alla madre terra, che sempre immerge nel calco della sopravvivenza. Coi suoi vogliosi, invitti richiami, ci preserva pure dalla moda della globalizzazione, come strappo sicuro da ogni radice e da ogni cultura di appartenenza. E mi placo, finalmente.”Ta-ta-ta” è vessillo d’una ferita; sillaba particolare che ridesta la gente -a ggente- dalle sue stesse ceneri!
Promulgato da Grazia Centra, il racconto restituisce Foggia e la Capitanata al mondo. Rivisita il regno di Dauno, umorale, torrido, fiero, sufficiente a se stesso. Sveglia in noi il dna creativo, allineato all’astro diurno più benefico tra tutti, il sole di Puglia, che scioglie… persino le panchine.
MICHELE TOTTA