Costumi e tradizioni popolari In C’era una volta il Carnevale il Dr. Michele Capuano (1913 – 1993) racconta il carnevale sangiovannese, con maschere tipiche, balli e il corteo degli “Schiavoni”. Fonte: “il pirgiano”, marzo-aprile 1990
Molti anni fa, per tutto il corso degli anni Venti, il Carnevale sangiovannese non era proprio sullo stesso ritmo di quello odierno. Anche se, allora come adesso, erano in atto aspirazioni confuse di carattere liberatorio, e un vero e proprio bisogno fisico di evasione dalla realtà.
Esso cominciava il 17 gennaio, giorno della ricorrenza di Sant’Antonio Abate (non per niente un vecchio proverbio sentenziava: Sant’Antòne, màsckure e sóne), quando apparivano le prime sagome di ragazzotti, che circolavano per le strade col camicione della nonna e con la faccia piena di farina.
Ma erano solo lontane avvisaglie. Perché dopo, per i quaranta giorni prima delle Ceneri, se ne vedevano nelle piazze di tutti i colori, mentre dovunque l’estro del popolo tirava in ballo anche gli adulti, e perfino le donne, travestiti immancabilmente con l’abito dei signori, che sfoggiavano come una divisa con decoro e dignità.
Tipicamente, i giovani validi uscivano in piazza con tuba e marsina e bastoncino dal pomo di argento, mentre le donne si destreggiavano in lunghe vesti di broccato, piene di trine, di sbuffi, di merletti e di ori, in una piacevole promiscuità di colori e di forme.
Più modestamente altri giravano vestiti da spettri (tunica bianca, e bartino con fiocco tirato all’indietro), rumoreggiando a non finire con un pestello metallico, che strofinavano ritmicamente sopra un mortaio di bronzo, e salmodiando ad alta voce:
J’ la tènghe ‘na cosa dura: lu murtàle che llu pesatùre! [1]Io ce l’ho una cosa dura: il mortaio col pestello.
Ilarità, doppio senso, allusioni e frecciate.
Ma tutto serviva a tenere sveglia l’attenzione del pubblico, con un’allegria disinvolta che si faceva contagiosa.
Anche in famiglia, ogni giovedì del nevoso febbraio, le massaie facevano a gara nel preparare cibi robusti, che andavano dalle strascenàte col sugo di castrato, ai brodi di agnello arricchiti con uova, e soprattutto alle carni del porco ammazzato a Natale, con le sue nnògghie arrostite alla brace, le sue salsicce, le soppressate e la ventresca affumicata.
Erano i festosi giovedì grassi, che oltre a soddisfare appetiti gagliardi, avevano il dono di tenere legata la famiglia alla tavola, a cominciare dal vecchio nonno catarroso e sentenzioso, all’ultimo cacchiotto che razzolava tra le gambe paterne.
* * *
Ed eccoci ai tre giorni che precedevano le Ceneri.
L’antivigilia il boom delle maschere raggiungeva il suo clou, con quel dilagare dalla mattina per vicoli e piazze, con quella Frenetica giovialità, sostenuta dai suoni strani dei scisciuli, dei tamburelli e dei bùchete e bbu, e soprattuto con le paperejàte estrose e bizzarre, che lasciavano nella gente il più suggestivo ricordo.
Piccoli gruppi mascherati penetravano liberamente in tutte le case, perché nessuno li poteva scacciare. Ed ecco che subito s’improvvisava una tarantella festosa, seguita sempre dalla bicchierata, coi tarallucci e le pizze offerti dagli ospiti.
Alla vigilia tutto il cancan sembrava quasi smorzarsi, un poco per la stanchezza, e un poco forse a riprender fiato per l’ultimo giorno di festa, quando il tumulto tornava ad esplodere con rinnovato entusiasmo.
Si ricominciava, ovviamente, dalla mattina per tempo, coi soliti lazzi e risate, e le solite bizze e stranezze di parole e di gesti.
Poi, a mezzogiorno, la grande abbuffata. E poco più tardi, nel primo pomeriggio, il corteo degli schiavoni. Erano i cavalieri venuti da lontano – dalle pianure della Schiavonia – che vestivano alla francese come giovani paggi (calze rosse e violacee tirate fino agl’inguini, giustacuore di seta di tinta più scura, camicia bianca con maniche a sbuffo, e spadino alla cintola) che cavalcavano grossi stalloni dalle gualdrappe stupende, fatto di coperte multicolori di velluto o di seta, adagiato sulla groppa come nei tornei d’oltremare.
Portavano in mano un arnese di legno (lu passétte o mètre), che scatava e si allungava fino ai balconi, per offrire alle ragazze un fiore stilizzato, che sembrava un omaggio alla loro bellezza , ma che in realtà era una scelta, o un segnale d’intesa per un incontro d’amore.
Erano affiancati lungo il percorso dai palafrenieri appiedati, che li rifornivano continuamente di fiori di carta,mentre alle spalle tumultuavano lunghe code di maschere.
Naturalmente ognuno si sfrenava in maniera diversa.
E c’era chi gettava farina ai passanti, col gusto d’imbrattane i vistosi costumi, e chi avviava sulle basole saltarelli provocatori, in mezzo a lazzi e contorsioni di sapore dionisiaco.
Ancora più tardi, alle prime ombre, ecco il tràino senza baracchini del Carnevale morente, rappresentato da un fantoccio riempito di paglia, con gote accese e naso a patata, che percorreva il corso di sopra fino a sera inoltrata,quando, in previsione della sua morte imminente, vi si accodavano torme di donne scapigliate e dolenti, che incominciavano a battersi il petto con altissime grida.
Carnevale si ribrezzava nel suo trono di legno, e ogni tanto sembrava reagire agli scossoni del carro.
Ma tutto questo durava il tempo per arrivare alla mezzanotte, quando la morte lo sorprendeva in una specie di dormiveglia, e tutta la folla impazzita ne piangeva la scomparsa tra lazzi, urli e gesti disperati. Ancora un attimo, ed ecco il rogo al centro della piazza, dove Carnevale veniva gettato per cremarne la salma, mentre il vortice dei clamori arrivava alle stelle.
Il giorno seguente, prima di Quaresima, tutto tornava stranamente nel grigiore di sempre.
La gente entrava nelle chiese, e ne usciva pensierosa coi capelli cosparsi di cenere.
Comparivano in mezzo ai vicoli le quarantàne, che erano dei fusi vestiti da donna, con una patata al posto dei i piedi, in cui s’infilavano ben sette penne (quante erano le settimane tra il Carnevale e la Pasqua), che si tenevano appese a un filo tra due finestre prospicienti, e che si spennavano gradatamente, in ragione di una penna ogni sette giorni.
La Quaresima veniva interrotta la prima domenica la prima domenica dopo le Ceneri, per celebrare
il Carnuvalicchie, o festa della Pentolaccia, quando con la scusa di rompere la pignata – che era un recipiente pieno di confetti e di dolci casalinghi – si suonava e si ballava in ogni casa.
Poi la gente rientrava in silenzio nella vita di ogni giorno.
Finita la grascia e scartate le danze, tutte le famiglie si affidavano alla più rigorosa parsimonia.
Nessuno voleva più saperne di carni e di sbornie.
C’era qualcuno che si adattava al più stretto digiuno. E c’era chi, volendo fare con la propria testa, andava a comprarsi un’aringa salata, su cui strofinare la sua fetta di pane, nell’unico pasto della giornata.
Veramente sacrosante le parole del vecchio proverbio:
Carnuvale nfùsse all’ogghie, jòje li maccarùne e cra’ li fogghie! [2]Carnevale bagnato nell’olio, oggi i maccheroni e domani la verdura!
Michele Capuano