Nel V secolo d.c. in una grotta di Monte sant’Angelo si verificarono diverse apparizioni di San Michele Arcangelo (8 maggio 490, 29 sett. 492, 29 sett. 493). Questi eventi prodigiosi attirarono sulla “Montagna del Sole” nutrite schiere di pellegrini che segnarono la fine dell’isolamento geografico delle popolazioni garganiche. Ciò vale anche per San Giovanni Rotondo, che rappresenta l’ultima tappa della Via sacra langobardorum, strada abituale percorsa dai pellegrini diretti alla grotta di San Michele.
Secondo la tradizione nella parte est di San Giovanni Rotondo esisteva un tempio pagano dedicato al dio Giano. Esso sarebbe stato distrutto dagli slavi venuti dall’Illiria insieme al villaggio Bisano, nell’anno 642 d.c.. Sulle sue fondamenta fu eretto un battistero che poi diventò parte integrante di una chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, al quale i pellegrini Longobardi erano molto devoti. Dal nome della chiesetta e dalla forma circolare dell’ex battistero deriva l’attuale denominazione della città di San Giovanni Rotondo.
La città diventata famosa grazie a San Pio da Pietrelcina ha una storia di una certa importanza, che affonda le sue radici in tempi lontanissimi, nella memoria di castelli e casali ormai scomparsi.
Niceforo Xifea (Alexius o Nicephorus Xiphea – Αλέξιος Ξιφίας) Protospatario e Catapano d’Italia degli imperatori d’Oriente, appena qualche mese prima di essere ucciso in battaglia, emise un diploma per Alessandro, Abate del monastero di S. Giovanni in Lamis cioè l’odierno convento di San Matteo, in agro di San Marco in Lamis. Il documento, risalente al mese di marzo 1007, parla di “Castellano Buzzano” e di Castel Buzzano e precisa, al tempo presente, che vi abitavano uomini (”ubi habitant homines”) dello stesso monastero.
Il predetto “Castello” era situato sulla cima di Monte Castellana, qualche centinaio di metri più in alto dell’odierna San Giovanni Rotondo. Il diploma di Necoforo Xipea è il primo documento che assoggetta gli uomini della terra San Giovanni Rotondo al Monastero di San Giovanni in Lamis.
L’anno successivo il Catapano Giovanni Antipati da Curcua (o Cusira)(Ιωάννης Κουρκούας) emise un secondo diploma in cui si descrivono i confini della terra assoggettata all’Abazia di San Giovanni in Lamis. La descrizione, lunga e minuziosa, precisa, per la parte che ci riguarda, che il confine «dal Castello Buzzano va a …… (omissis) indi si dirige verso Bizzano e ritorna al Castel Bizzano donde già cominciammo». Ciò prova l’esistenza, già nell’anno 1008, in prossimità di “Castel Bizzano” (o Castel Buzzano) di un luogo distinto chiamato “Bizzano” che può essere identificato con il futuro “Casale Sancti Johannis Rotundi”. Con questo nome, infatti, sarà citato, nel 1095 un Casale posto ai piedi dello stesso “Castello”.
Detto castello sarebbe sorto sulle rovine di Gargaros, villaggio fortificato fondato migliaia di anni fa da una tribù proveniente dall’Illiria, notizia proveniente da documentazione antica che andrebbe verificata con opportuni scavi sul posto.
Nel mese di novembre 1095 il Conte normanno Enrico di Monte Sant’Angelo emise un decreto in cui per la prima volta si parla del “casale S. Johannis Rotundi”, posto ai piedi della vetta di “Castel Buzzano, ubi est terra antiqua inhabitata“. Si suppone quindi che Castel Buzzano, posto in cima alla montagna, venne abbandanata una prima volta dai suoi abitanti tra il 1008 e il 1095 per confluire nel casale di Bizzano, allo stresso sottoposto, prima che assumesse la denominazione di Sancti Johannis Rotundi.
Con decreto dell’anno 1134 il re di Sicilia e d’Italia Ruggero, su istanza dell’abate del Monastero di S. Giovanni de Lama, prese sotto la sua protezione detto Monastero e citò tra i suoi casali e pertinenze anche il “Casale Sancti Johannis Rotundi”.
Nel 1177 il re Gugliemo detto “il Buono” confermò all’abate del Monastero di San Giovanni de Lama la protezione reale, dichiarando detto monastero soggetto solo alla giurisdizione del pontefice romano. Nel diploma dichiarò come appartenenti al Monastero la “eclesiam S. Maria cum Castili sancti Ioannis Rotundi cum hominibus, iuribus et pertinentiis suis”.
Guglielmo concesse in dote alla sua sposa, a titolo di onore, il Comitato di Monte Sant’Angelo e il Monastero di S. Giovanni de Lama con tutti i suoi beni, compreso il casale di San Giovanni Rotondo.
Durante la terza Crociata Guglielmo II il Buono iscrisse nel contingente da inviare in Terra Santa quattro militi, ed otto con l’aumento, oltre sedici servienti (soldati a cavallo), della terra di S. Giovanni Rotondo. Dalle leggi del tempo per il calcolo del numero di militi che ciascun feudo era tenuto a fornire, si deduce che all’epoca San Giovanni Rotondo era la terra più popolosa del Gargano, con circa 2000 abitanti, con una rendita di 168 once d’oro (circa 1000 ducati napoletani).
Tale primato fu mantenuto fin oltre al 1679, anno in cui la sua popolazione superava ancora, di 182 unità, quella di Monte Sant’Angelo.
Nel 1194 le truppe dell’imperatore Enrico VI di Svevia, detto il crudele, distruggono Castel Bisano, posto sulla cima del monte Castellana , poichè i suoi abitanti, che sono gli stessi che popolano San Giovanni Rotondo, si rifiutano di pagare una seconda tassa di vassallaggio di cento once d’oro.
Perciò lo stesso imperatore abbattè le mura e fece cospargere di sale dissacratore la terra sangiovannese. Le proteste dei sangiovannesi contro la pretesa di voler tassare Castel Bisano come terra distinta da San Giovanni Rotondo, contro ogni evidenza, erano giuste. L’episodio, riportato dai cronisti storici, fa pensare che nel già menzionato periodo 1008-1095 Castel Bisano non fu del tutto abbandonato o che negli anni successivi tornò ad essere abitato dai sangiovannesi, almeno saltuariamente.
Nel 1216 S. Francesco D’Assisi si recò in pellegrinaggio alla Grotta di S. Michele. Il libro “Ex confermitate fratrum” riporta la notizia del suo passaggio per San Giovanni Rotondo. Di lì a poco dovette sorgere il convento più antico del paese, con una piccola chiesa, di cui oggi non resta altra traccia che un’immagine della Madonna dell’Incoronata di Foggia, incastonata nelle mura di un’abitazione privata inTraversa Cavallotti. Testimonianze scritte attestano che i resti del convento furono visibili fino agli inizi del 1700.
Nel 1220 Federico II effettuò la revisione di tutti i Diplomi concessivi rilasciati in epoca Bizantina e Normanna agli Abati del Monastero di S. Giovanni in Lamis . Rilevò che San Giovanni Rotondo, derivando dall’antico Castel Bisanum preesistente alla istituzione della baronia badiale, era terra demaniale appartenente alla Corona. Per questo motivo al Papa, che si lamentava dell”espoliazione dei beni appartenuti al Monastero di San Giovanni in Lamis, obiettò che “Locus Lamae” (cioè San Giovanni Rotondo) era svincolato dal Monastero per decreto e, pertanto, potè e dovette assegnarsi secondo il diritto canonico e civile alla curia imperiale (Locus Lamae evictus est per sententiam ab Abate Sancti Iohannis de Lama, qui de eo velut de re feudali potuit secundum ius civile et canonicum in imperiali Curia conveniri...). Con ciò Federico II sottraeva la terra di San Giovanni Rotondo alla baronia badiale e la facevae rientrare nelle terre del regio demanio. Per questo affronto si guadagnò la scomunica a vita.
Federico II di Svevia firmò a Salerno un decreto col quale si confermava all’abate del Monastero SS. Trinità di Cava dei Tirreni il possesso di 55 casali, tra i quali Sant’Egidio del Prato di Pantano, distante qualche chilometro da San Giovanni Rotondo.
Carlo I d’Angiò, sconfitto Manfredi figlio di Federico II (morto in battaglia) e diventato re delle due Sicilie, nel 1271 insignì il figlio Carlo II dell’Onore di Monte Sant’ Angelo, comprendente parte del territorio di San Giovanni Rotondo, che ricadde così sotto la baronia dell’Abate del Monastero San Giovanni de Lama.
Carlo lo Zoppo, succeduto a Carlo II, analogamente investì Raimondo Berlingieri della Signoria di Monte Sant’Angelo. La terra di S. Giovanni Rotondo fu poi ceduta in enfiteusi dall’abate del Monastero di San Giovanni de Lama al barone francese Teobaldo Helamant, al censo annuo di 40 once d’oro. Conseguentemente la popolazione venne defraudata di tutte le libertà, immunità, privilegi e usi derivanti dall’assegnazione federiciana di detta terra al regio demanio.
Nel 1307 Raimondo Berlingieri morì senza eredi. Pertanto il casale di S. Giovanni Rotondo passò nuovamente al demanio regio e venne tassato di otto militi senza servienti, come terra senza barone.
Il 26 gennaio 1397 Margherita, duchessa di onore di Monte S. Angelo , firmò un decreto riguardante il diritto di pascolo promiscuo sui territori di S. Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo che furono causa di dispute e contese tra i cittadini delle due terre.
L’ 8 febbraio 1414 venne pubblicato un altro decreto della Regina Giovanna II riguardante pure il diritto del pascolo promiscuo sui territori di S. Giovanni Rotondo e Monte S. Angelo.
Nel 1424 Alfonso d’Aragona invase il regno. San Giovanni Rotondo, non sopportando i costumi corrotti della regina Giovanna, si schierò dalla sua parte, rinoscendogli la sovranità.
Alla morte della Regina Giovanna, avvenuta il 2 febbraio 1435, si svilupparono, con alterna fortuna, strenue lotte tra Angioini ed Aragonesi. Le città si schierano ora da una parte, ora dall’altra. San Giovanni Rotondo, avendo stretto un patto con Manfredonia, passò con l’angioino Renato, fratello di Giovanna. Ciò provocò l’ira di Alfonso d’Aragona, che assalì il paese. A nulla valse il valore degli abitanti, che lo difesero strenuamente. La soldatesca, malgrado fosse cinto da una forte difesa muraria, espugnò il paese e lo mise a ferro e fuoco, uccidendo uomini e bestiame, incendiando e distruggendo mura, case e documenti dell’Università.
Nell’anno 1442 il peso della sventura spinse i sangiovannesi ad avanzare i cosiddetti capitoli, grazie ed immunità ad Alfonso d’Aragona, divenuto padrone incontrastato del Regno di Napoli, chiedendo la conferma di diritti sanciti da antichi documenti andati distrutti. Inoltre invocarono la sospensione delle pubbliche imposte. Re Alfonso accolse la supplica ed inviò un Capitano per governare quella che i supplicanti avevano definito “la vostra Terra, nuovamente deducta alla vostra fidelità” . Nella sventura, i sangiovannesi accolsero di buon grado che il loro paese, già dichiarato Casale Regio da Federico II di Svevia, ricadesse nuovamente sotto la potestà reale, sottraendosi così alla ripugnante dominazione dei Signori, nella quale era già caduto dopo la perdita della corona da parte della Regina Giovanna.
L’1 agosto 1447 Alfonso I emanò la famosa “Prammatica” sulla “Dogana delle mene delle pecore” a favore dei proprietari abruzzesi e lucani, per sfruttare economicamente la grande estensione e il clima favorevole del Tavoliere delle Puglie. Molte terre furono sottratte al censo comunale, per aumentare la capienza di pecore nel Tavoliere e trarne maggior profitto. Il demanio sangiovannese dovette cedere le terre della Locazione di Candelaro e quella delle Cave, con diritto di statonica. Successivamente la zona di Campolato, che faceva parte della Locazione delle Cave, essendo particolarmente ricca di ottimo erbaggio, venne scorporata per essere adibita al pascolo delle razze Regie di cavalli.
Morto Alfonso I , detto il Magnanimo, gli successe il figlio Ferdinando I o Ferrante. Il suo Regno fu contrastato da Giovanni D’Angiò che scese in armi per riportare la sua famiglia sul trono.
Nel 1461 moltissime città della Puglia e le più importanti di Capitanata, come Troia, Foggia, S. Severo, Manfredonia, e tutti i castelli del Gargano, gli aprirono le porte. Solo San Giovanni Rotondo si oppose e diventò preda del furore angioino: «Benchè si fosse difesa per molti giorni, alla fine il Francese diede sangue et a fuoco questa Terra et la guerra francese si mangiò vacche, pecore et altri animali, come si osserva nelle scritture et memoriali dei cittadini di S. Giovanni Rotondo». Giunse in soccorso di Ferdinando I il celebre capitano Giorgio Castriota detto Scandemberg, figlio del principe Giovanni d’Albania, che sconfisse e mise in fuga gli avversari.
Per questo ed altri atti di valore Ferdinando I concedesse al capitano epirota anche la signoria di S. Giovanni Rotondo (1464). Ciò fu fonte di ulteriori sventure per gli sforunati sangiovannesi. I cronisti storici, infatti, ricordano il periodo di dominazione albanese come un periodo di tirannia, durante il quale il popolo fu assoggettato a forti tributi di vassallaggio, riscossi anche con modi violenti.
Nel 1467 Giorgio Castriota Scandemberg morì a Lissa, per difendere la sua patria, e suo figlio Giovanni Castriota gli successe nella signoria di San Giovanni Rotondo.
All’epoca esisteva a San Giovanni Rotondo un piccolo convento, ma si trovava fuori dell’abitato ed era soggetto ad ogni tipo di pericolo. Perciò , malgrado le indicibili sofferenze e distruzioni appena patite per causa di guerra, la popolazione decise di edificarne un altro a sue spese, entro le mura. Il nuovo convento, di modesta fattura, aprì i battenti nell’anno 1470, regnando Ferdinando I d’Aragona . In principio esso ospitò i Padri dei frati minori conventuali. Nel 1652 il convento fu soppresso da papa Innocenzo X, per mancanza di rendite, e venne utilizzato temporaneamente dal clero locale.
Un anno dopo lo stesso papa lo ripristinò e i padri francescani vi poterono ritornare tra il giubilo e l’ovazione popolare. Per evitare nuove chiusure, i cittadini lo arricchirono di rendite. Nel 1700 il frate sangiovannese P. Giambattista Lisa ottenne dall’Università licenza di abbattere e riedificare il convento con una nuova e più pregevole architettura più confacente alla vita claustrale. In poco tempo attuò il progetto spendendo circa tremila ducati, ricavati dalle elemosine e dai proventi dell’attività di predicatore. Successivamente detto convento, già intitolato a S. Francesco di Assisi, diventò “Palazzo San Francesco” , che ospita ancora oggi il Municipio di S. Giovanni Rotondo.
Federico III, memore dell’aiuto determinante dato contro i Francesi al suo predecessore e nipote Ferdinando II, morto il 7 ottobre 1496, donò e concesse con decreto del 10 marzo 1497 al Gran Capitano spagnolo Ferdinando Consalvo di Cordova, per sé e per i successori, la città di Monte Sant’Angelo e la terra di San Giovanni Rotondo “quae Terrae pleno et legittimo jure pertinent ad nos, et nostram Curiam et sunt de Demanio et Patrimonio nostro”.
Lo spagnolo Ferdinando il Cattolico, legato a Ferdinando II d’Aragona da vincoli di parentela, non aveva esitato a mandargli in aiuto Ferdinando Consalvo di Cordova; ma al momento opportuno mise da parte i sentimenti familiari e si alleò con i Francesi, per assalire e poi spartirsi il regno degli Aragonesi . Federico III preferì ritirarsi a Tours. Spagnoli e Francesi entrarono in lotta tra loro e si contensero accanitamente il regno degli Aragonesi.
In questo frangente, mentre Ferdinando Consalvo di Cordova era impegnato in Puglia nelle battaglie contro gli Spagnoli, le truppe francesi guidate dal Generale Luigi d’Armagnac attaccarono San Giovanni Rotondo, di cui lo stesso Ferdinando era utile Signore. Siamo nel 1503, L’accanita resistenza costrinse i Francesi ad assediare lungamente il paese fortificato. Alla fine riuscirono ad avere la meglio e, per la terza volta, i fieri sangiovannesi dovettero subire incendi, morte e distruzione . Il bestiame, che costituiva la sua ricchezza, fu decimato dai soldati francesi, per fame e per vendetta.
Intanto, Ferdinando Consalvo di Cordova, signore di San Giovanni Rotondo, era impegnato a servire la causa di Ferdinando il Cattolico, lasciando sguarnito il suo paese e, per il suo valore di combattente, ottenne la nomina a Viceré e Luogotenente Generale, mentre i sangiovannesi si ritrovavano prostrati dalla miseria più cupa.
Cacciati i francesi, a lui, Vicerè e suo signore, l’Università di San Giovanni Rotondo indirizzò un’altra supplica per ottenere la riconferma dei privilegi e delle immunità, capitoli, grazie e consuetudini godute in passato. La richiesta venne accolta con un diploma emesso nel mese di marzo 1504.
Dopo una nuova dichiarazione di guerra tra Francesco I di Francia e Carlo V di Spagna, la terra di S. Giovanni Rotondo restò ancora coinvolta nella disputa per il possesso del Regno di Napoli.
Nel 1528 il paese fu occupato dal Generale Odetto Lautrech, conte di Foix, inviato da Francesco I. Pare che l’accampamento dei soldati francesi si trovasse in una vigna fuori le mura che da quel momento fu chiamata dai sangiovannesi “la vigna di Trecca”. Idiscendenti dello stesso proprietario della vigna hanno tamandato di padre in figlio la memoria che il loro soprannome (“Trecca”) derivi dall’assonanza con il nome Lautrech, il generale che occupò la loro vigna. Nel 1734 e nel 1738 alcuni scavi riportarono alla luce varie palle di cannone, alcune delle quali sotto la torre principale della cinta muraria, risalenti quasi sicuramente al periodo dell’assedio del generale Francese. Certo è che Carlo V con un diploma del 22 marzo 1536 riconfermò all’Università di San Giovanni Rotondo i precedenti privilegi, usi civici e promiscuità con i territori circostanti. In più, per il coraggio e il valore dimostrato contro i francesi, la riconobbe “Fiedelissima Universitas” , concedendole venti anni di franchigia nel pagamento delle tasse.
Successivamente il principe Ferrante Consalvo cedette San Giovanni Rotondo al barone Carlo di Mormile, a cui successe il figlio don Fabrizio, imparentato con i Carafa. Quando Vincenzo Carafa diventò abate del Monastero di S. Giovanni in Lamis, il nipote Fabrizio gli concesse in enfiteusi e in perpetuo affitto “la Bagliva con la giurisdizione civile, il Banco della Giustizia, l’elezione dei giudici e dei Mastrogiurati con tutti gli agi e gli emolumenti…”, facendo ricadere nuovamente la terra e i cittadini di S. Giovanni Rotondo sotto il dominio baronale, provocando liti giudiziarie presso presso la Gran Corte della Vicaria. Il 6 dicembre 1678 la Gran Corte riconobbe ai sangiovannesi il diritto di “acquare, pascolare, legnare, pernoctare” nel territorio badiale, diritto già riconosciuto in passato dai monarchi di Napoli in base ai diplomi dei Catapani, confermati dal decreto del Conte Enrico nel 1095.
Intanto il barone Mormile, a causa degli ingenti debiti, aveva venduto il feudo, con riserva di riscatto,- alla contessa Beatrice Guevara. Alla sua morte, la terra di S. Giovanni Rotondo passò, nell’ordine, a don Matteo Ruggiero per ducati 25.000 (anno 1607).
Secondo quanto riportato da Francesco Nardella nel libro “Memorie storiche di S. Giovanni Rotondo”, il primo feudatario appartenente ai Cavaniglia fu don Pietro Cavaniglia (1607) al quale fu riconosciuto il diritto di ricompra del feudo. Questo era stato ceduto ad altri senza tener conto che un nipote del Mormile avesse riconosciuto a Don Pietro il diritto di riscattare San Giovanni dalla duchessa Guevara. Poi il feudo passò al figlio don Francesco Cavaniglia, Marchese di San Marco dei Cavoti (anno 1608) che lo donò in vita al secondogenito don Michele Cavaniglia (1615). A lui si deve la costruzione del Palazzo del Marchese, oggi palazzo baronale. Ma non riuscì a completare l’opera, avendo realizzato la parte di levante e non il prospetto di ponente. Gli ingenti costi dei lavori, ammontanti a dodicimila ducati, lo costrinsero a indebitarsi con parecchie famiglie di San Giovanni e anche all’estero. Quando fu mandato a Madrid come nunzio del Vicerè di Napoli contrasse altri ingentissimi debiti, ottenuti offrendo in garanzia terre appartenenti al Demanio Comunale dichiarate di suo incontrastato dominio. Al suo ritorno a S. Giovanni Rotondo D. Michele si ritirò nel suo palazzo rimasto incompiuto. Ma in soli otto giorni, secondo un manoscritto della famiglia Lisa citato dal Nardella, lui, il figlio Emanuele e tutti gli altri di casa morirono misteriosamente dopo aver perso i capelli, forse avvelenati. Don Addiego fu l’unico discendente diretto di don Michele a salvarsi perché “si trovava a stare nel convento dei cappuccini notte et giorno et era buon cristiano”. (Cfr. F. Nardella, “Memorie storiche di S. Giovanni Rotondo”, Brescia, Istituto degli Artigianelli, 1961 , da pag. 135 a pag. 142)
Le notizie del Nardella, purtroppo, rnon sono sempre confortate da fonti documentali certe. Tant’è che a volte differiscono rispetto a quelle che ci fornisce Giosuè Fini, altro esimio studioso sangiovannese che, in tempi più recenti, nel libro “Don Garsia Cavaniglia” si è interessato anche ai Cavaniglia Duchi di San Giovanni Rotondo:
G. Fini precisa che i Cavaniglia vengono dal ramo dei Marchesi di San Marco dei Cavoti. Individua come primo feudatario di San Giovanni Rotondo il già citato Francesco Cavaniglia, ricordato come possessore di San Giovanni Rotondo e Candelaro; egli rinunziò a questi due feudi a favore del figlio Michele (1614). L’anno dopo questi vendette il feudo di San Giovanni Rotondo a Don Pietro Cavaniglia, un suo parente. Tuttavia Don Pietro, per venire in possesso di San Giovanni Rotondo, dovette sborsare nel 1621 una ragguardevole somma di denaro perché il feudo era contestato da parecchi creditori di Francesco Cavaniglia. Nel 1623 Filippo IV di Spagna gli conferì il titolo di Duca di San Giovanni Rotondo e D. Pietro fu il primo ad avere questo titolo, con privilegio di poter disporre in favore della nipote Eleonora, figlia di suo fratello Diego. Don Pietro morì nel 1636. Eleonora, ereditiera del Ducato, sposò D. Michele Cavaniglia, il quale ridiventò feudatario e Duca di S. Giovanni Rotondo. Riguardo alla fabbrica del Palazzo e ai debiti contratti, G. Fini riporta le stesse notizie fornite dal Nardella. Aggiunge che Don Pietro Cavaniglia fu uomo di cultura e dopo la sua morte le sue opere furono pubblicate con titolo “Composizioni Erudite”. Il Duca scriveva anche poesie e commedie, date poi alle fiamme. Ebbe vita lunga, fino al 1668. La morte giunse improvvisa. Al riguardo G. Fini cita nuovamente il Nardella: “In un manoscritto della Famiglia Lisa, si legge, come attesta Nardella che Don Michele Cavaniglia e suo figlio Emanuele con tutti quelli di casa e famiglia in otto giorni morirono: si salvò solo Diego, il figlio minore, che si trovava nel Convento dei Cappuccini: una febbre maligna, che produsse la perdita dei capelli e dei peli in otto giorni morirono”. Don Diego successe a Don Michele e e diventò anch’egli Duca del Paese. Con Diego, si estingue la famiglia di Don Michele Cavaniglia.(Cfr. G. Fini, Don Garsia Cavaniglia”, Leone Editrice, Foggia, 1994)
A questo punto il Nardella prosegue la storia familiare affermando che “Don Addiego” cedette i diritti di successione al Duca Don Geronimo Sforza Cavaniglia, ricco e munifico, il quale arricchì di pitture l’ex palazzo marchesale. Il Duca Geronimo restò signore di S. Giovanni Rotondo fino al 1709, anno della sua morte. Il feudo passò quindi al figlio Don Carlo e da questi al figlio Don Troiano. Infine quest’ultimo, dopo aver menato bella vita a Napoli lontano dai vassalli, si ridusse in miseria e vendette per soli 4.000 ducati il palazzo ducale alla famiglia Lisa. (cfr. F. Nardella, op. cit.)
Il 2 novembre 1625 si inaugurò il Convento delle suore Clarisse, intitolato a Santa Maria Maddalena. Il convento sorse per disposizioni testamentarie dell’arciprete Berardino Galassi, che lo dotò di una rendita ricavata dalla vendita di tutti suoi beni, con obbligo di riservare ogni anno la somma di venti scudi per le necessità dei poveri del paese. Nel 1809 il convento si salvò dalla soppressione degli ordini religiosi, voluta da Gioacchino Murat, grazie ad una sorella del Ministro Giuseppe Ricciardi, suora nel convento di Foggia, la quale perorò la causa delle consorelle di San Giovanni Rotondo. Una petizione del Consiglio Municipale, che mise in evidenza le finalità assistenziali della comunità religiosa, salvò il convento anche dalla soppressione degli enti religiosi disposta dal governo unitario (1866).
Nel 1627 nello “stato delle rendite e dei pesi di ciascun municipio” l’Università di S. Giovanni Rotondo fu rubricata con quattrocentosessantaquattro “fuochi”.
Il 30 luglio 1627 un terremoto devastante colpì San Giovanni Rotondo e molte persone restarono sepolte dalle macerie in zona “Porta del Lago”, soprattutto in via Biffa.
Il 12 giugno 1630 aprì i battenti il Convento di San Domenico di Guzman, edificato a spese di D. Michele Cavaniglia in zona Santa Croce, nel luogo ove sorve oggi il palazzo Massa. Non avendo ottenuto il permesso di questuare e non essendo sufficiente la rendita assicurata dai Cavaniglia, i padri domenicani dovettero ben presto abbandonare il convento, che fu soppresso dal pontefice Innocenzo III con bolla del 1652.
Il 16 dicembre 1631 il Vesuvio entrò in eruzione e le ceneri, giunsero copiose anche sul Gargano, spinte dalle correnti in quota. I sangiovannesi dormirono all’aperto, temendo la fine del mondo. Il terzo giorno la pioggia scese dal cielo sotto forma di fango e la gente si percosse il petto, invocando il perdono dei propri peccati. Poi tutto finì e la vita riprese. Nel 1656 la peste bubbonica mietè vittime in tutto il regno di Napoli. A San Giovanni Rotondo si contarono quattordici morti. L’apparizione di San Michele Arcangelo al vescovo di Manfredonia Alfonso Puccinelli, avvenuta mentre pregava e faceva penitenza, venne interpretata come un segno di Grazia. Il vescovo fece scheggiare piccole pietre della grotta miracolosa e vi fece scolpire un segno di croce con le iniziali del Santo (S+M). Richieste di pietre miracolose giunsero copiose da tutto il Gargano, in quanto si credette che avessero il potere di allontanare il pericolo. La peste fu scacciata così da quelle contrade con perdite di vite umane molto contenute. E cominciò anche l’uso di incastonare nei muri delle abitazioni, in apposita nicchia, una statua protettiva di San Michele scolpita con pietra di Monte Sant’Angelo.
Nel 1676 tra il Duca Geronimo Cavaniglia e l’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini , futuro papa Benedetto XIII, sorse un’aspra controversia riguardante l’amministrazione della chiesa San Leonardo Abate. I sangiovannesi si schierano con il duca. L’arcivescovo effettuò delle visite pastorali e rilevò che la popolazione praticava usi e costumi superstiziosi. Tra questi, quello delle donne zitelle che il martedì in Albis raggiungevano a piedi nudi la chiesa di Sant’Egidio, distante qualche chilometro dal paese, e si calzavano dietro l’altare quale segno propiziatorio per il matrimonio. Rilevò anche le pessime condizioni della chiesa matrice, ritenendola inidonea alla funzione di tempio di Dio. Pertanto ordinò la cessazione di ogni pratica superstiziosa e l’abbattimento della chiesa , con obbligo di riedificarla a spese della collettività. I sangiovannesi ignorarono l’interdetto e l’arcivesovo scomunicò tutti.
In questo frangente si sviluppò un morbo misterioso che attaccò i sangiovannesi e provocò circa 500 vittime su una popolazione complessiva di 2690 anime. La gente pensò ad un castigo di Dio e si decise di avanzare al vescovo istanza di revoca della scomunica. Questa fu accolta soltanto dopo la sottomissione personale del duca e delle persone che avevano provocato la disobbedinza della popolazione. Il 26 ottobre 1678 venne posta la prima pietra della nuova chiesa di San Leonardo.
Nel 1681 nacque a San Giovanni Rotondo, da madre sangiovannese e padre foggiano, Celestino Galiani, destinato a diventare Cappellano Maggiore del Re. Uomo dalla profonda e vasta dottrina che abbracciava tutte le scienze e la letteratura, fu chiamato da illustri università di tutta Europa.
Nel 1709 morì il duca don Geronimo Cavaniglia e gli successe il figlio don Troiano.
All’alba del 19 marzo 1731 un fortissimo terremoto scosse la Puglia e il Gargano. Foggia fu particolarmente colpita. La terra tremò per lungo tempo. I sangiovannesi dormivano all’aperto. Per calmare la plebe l’Università eresse una chiesa di legno e in essa per parecchi mesi si celebrarono i riti religiosi.
Il 21 maggio 1737 si ripeté il fenomeno del Vesuvio del 6 dicembre 1631. Questa volta però la cenere fu molto più copiosa, formando nei campi una coltre che raggiunse i sei centimetri. Il 24 maggio la pioggia trasportò la cenere in pozzi e cisterne, provocando la morte di uomini e animali. Isangiovannesi, venuti a sapere che il Gargano era sede di vulcani spenti, ebbero paura. Solo il 28 maggio la popolazione si rasserenò, quando da Napoli giunse una relazione che spiegava il fenomeno vesuviano.
Il 23 settembre 1783 nasceva a San Giovanni Rotondo Celestino Maria Cocle. Entra a far parte della Congregazione istituita da S. Alfonso dei Liguori. Riveste numerose cariche in seno al suo ordine . La sua eloquenza e i nobili sentimenti gli fanno guadagnare la simpatia di Francesco I, re di Napoli, che lo chiama a predicare nella cappella reale palatina. Celestino rifiuta molte offerte del re che lo propone come vescovo di Melfi. Accetta invece di dirigere spiritualmente i Principi Reali.
Nel 1806 giunse nel Regno di Napoli Gioacchino Murat, con il fratello Giuseppe. A San Giovanni si sparse la voce che a san Severo i francesi avesero usate molte violenze, come tagliare le orecchie e le dita delle donne, per portar loro via anelli ed orecchini. Lo storico sangiovannese Francesco Nardella racconta che i capi sangiovannesi, spaventati dalla ferocia distruttiva dei francesi decisero di far stillare dal seno delle giovani mamme il latte destinato ai propri figliuoli per ricavarne formaggio fresco da offrire agli ufficiali nemici. Questa singolare e commovente offerta avrebbe convinto i francesi a lasciare indenne l’abitato di San Giovanni Rotondo.
Il 17 maggio 1811 fu firmato l’ “Accordo tra il Commissario Ripartitore Biase Zurlo e l’Amministrazione del Tavoliere per la divisione de’ demani di S. Giovanni Rotondo” . Di fatto, però, non esisteva un demanio “libero”, risultando in gran parte usurpato. Pertanto l’operazione di quotizzazione e di assegnazione delle terre demaniali ai bisognosi si rivelò veramente ardua e provocò attriti insanabili . Nel 1817, tra difficoltà di ogni genere e vari sopralluogi di agenti demaniali, si giunse finalmente alla divisione tra i cittadini del vasto demanio olivetato delle “Matine”, destinato a diventare un “giardino”, dal quale i quotisti avrebbero ricavato cospicua ricchezza. Questa fu l’unica divisione che si riuscì a realizzare in svariati decenni e ciò spinse i cittadini a continuare ad occupare e dissodare abusivamente il demanio comunale.
Nel 1820 l’ondata di liberalismo investì anche San Giovanni Rotondo. Nel paese vi era una vendita carbonara molto attiva, guidata dal Gran Maestro e Capitano dell’organizzata Legione D. Antonio Ventrella. Ma erano attivi anche i Calderari, scontenti della costituzione promessa da Ferdinando I. Un cartello affisso in paese incitò i cittadini ad assassinare i carbonari, inneggiando all’arrivo degli austriaci. Sorde voci circolaro circa l’uccisione di tutti gli impiegati comunali e dei presunti autori delle “disposizioni che le circostanze imperiose de’ tempi richiedono”.
Il 6 ottobre 1820 fallì un attentato a Don Filippo Bramante. Il suo somaro, invece, rimase ucciso dalle fucilate. Nel corso della stessa notte venne uccisa una vacca del sindaco Don Giovanni Verna.
Nei mesi di luglio ed agosto 1837 il colera fece in paese oltre cento vittime. Verso la fine di dicembre 1846 quindici giovani sangiovannesi si recarono a piedi a Cagnano Varano per acquistare anguille per le festività natalizie. Per ritornare scelsero la strada più breve. Ma una tempesta di vento e neve li colse per strada. Giunti stremati sulla cima della montagna che sovrasta il paese, il freddo e il vento li uccise tutti, uno ad uno. I soccorritori trovarono i loro corpi congelati, poco distanti l’uno dall’altro, all’aperto o in ricoveri di fortuna.
Nel 1848 lo lo spirrito repubblicano eccitò spirito pubblico sangiovannese. Una decina di individui furono accusati di “tentata cospirazione onde cambiare o distruggere l’attuale forma di Governo ne’ principi di Novembre 1848″. Alcuni di loro avrebbero protatto il loro impegno patriottico per decenni per poi essere presi e uccisi dai filoborbonici durante la reazione sangiovannese filoborbonica del 1860.
Negli anni 1850, 1858 e 1862 tre alluvioni colpirono il paese. La più violenta fu quella del 3 ottobre 1862, causata dalo smotamento dei massi accumulatisi nella valle Porta Suso. L’acqua, raccoltasi copiosamente, trascinò con sè detriti e pietre e investì con violenza moltissime case. Diversi muri crollarono e i sottani si riempirono di acqua e fango, con perdita di mobili, suppellettili e generi alimentari. “Se la pioggia avesse continuato per un’altra mezz’ora, o se le macerie delle vigne fiancheggianti la summenzionata Valle non avessero cedute all’impeto della corrente, (il paese) sarebbe stato portato via con tutti gli abitanti”.
Il colera tornò ad uccidere dal nove agosto al 5 ottobre 1854 . Questa volta si contarono 506 casi di contagio e 182 morti.
Nel 1852 un’invasione di cavallette attaccò il raccolto. Nel mese di maggio nel tenimento di S. Giovanni Rotondo operavano circa 400 persone con 17 “rachene”, che assicuravano giornalmente la distruzione di 70 tomoli di cavallette . Le rachene erano lunghi teli, tesi per sbarrare il volo dei fastidiosi insetti. Le cavallette cadevano a terra e venivano uccise. Un’altra delle tante invasioni disastrose avvenne nell’anno 1871, con la distruzione completa del raccolto di grano; le cavallette invasero anche le case, caddero ed imputridirono nei pozzi e nelle cisterne, inquinando le riserve di acqua. Il 2 ottobre 1859 la Gran Corte Criminale di Lucera sottopose a giudizio Guglielmo Fabrocini, accusato di “fabbricazione e detenzione di distintivi settari” ossia di “coppola tricolore”. Una sua domanda di grazia, per poter tornare con la moglie e i quattro figlioli, fu respinta. Il Fabrocini sarà ucciso durante la reazione borbonica del mese di ottobre 1860.
La reazione borbonica scoppiò in occasione del plebiscito per l’Unità d’Italia. Una ventina di soldati sbandati dell’esercito borbonico e alcuni maggiorenti del paese, tutti filoborbonici, fecero arrestare e poi uccidere in carcere, con cruenza indicibile, ventiquattro galantuomini liberali sangiovannesi. Con quella strage la Plebe segnò la propria rovina, perchè gli uomini uccisi erano quelli che intendevano farla uscire dal suo stato miserando. I nomi dei ventiquattro martiri della Patria sono scolpiti su una lapide affissa sulla facciata del palazzo municipale e, malgrado qualche tentativo di farla sparire, vi resterà per sempre, per ricordare ai posteri il loro sacrificio.
Arrivato l’esercito con oltre mille uomini e diversi cannoni, tornò la calma. Dieci reazionari furono presi, processati e fucilati. Altri tre condannati godettero della grazia sovrana.
Il 17 aprile 1864 la Guardia Nazionale sangiovannese, sotto il comando di Don Federico Verna, intercettò la Banda Cicognitto, forte di 12 briganti, con la quale ingaggiò un violento conflitto al fuoco. I soldati catturarono due briganti e ne ferirono altri, mentre il resto della banda riuscì a fuggire. Per questo atto di valore la Guardia Nazionale si guadagnò un premio in denaro di ducati 984 della Commissione Provinciale.
Nei mesi di luglio e settembre 1886 l’ennesinma epidemia colerica attaccò 475 sangiovannesi. I morti questa volta furono 183. Morì anche il medico Dr. Francesco Giuva che tanto si è prodigò per salvare i malati. A 150 orfani la Provincia, per mitigare la loro sventura, assegnò un sussidio, variabile a seconda della perdita di uno o di entrambi i genitori.
Nel 1875 il Sindaco presentò una domanda per divisione del demanio delle Costarelle e di Cicerone. Pervenuto l’assenso, dai due demani si ricavarono 583 quote per altrettanti capofamiglia (1976).
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 1875 si verificò il più forte terremoto a memoria d’uomo. Ebbe un moto sussultorio-ondulatorio e durò dodici interminabili secondi. Soffitte e solai si aprirono con pioggia di calcinacci; i mobili si spostarono nelle stanze. Si contò una sola vittima, ma le case lesionate ammontarono a più di trecento. La gente, atterrita dalle continue scosse di assestamento, continuò a dormire per circa un mese in baracche e altri luoghi più sicuri.
Il 31 gennaio 1909 il Consiglio comunale di S. Giovanni Rotondo deliberò di dare in affitto il convento di Santa Maria delle Grazie ai Padri minori cappuccini Francesco Latiano e Nicola Ciavarella, per ventinove anni, a condizione di tenere aperta al pubblico l’annessa chiesa. Questa volta ci fu l’approvazione da parte della Giunta provinciale. E’ questo l’ultimo atto di una lotta amministrativacon le autorità provinciali, durata diversi decenni, intrapresa per consentire il ritorno dei frati nel convento, chiuso con la soppressione degli ordini religiosi del 1866.
Questo provvedimento finirà per spalancare le porte a Padre Pio da Pietrelcina. Infatti il 28 luglio 1916, per sottrarlo alla calura estiva, Padre Paolino di Tommaso da Casacalenda conduceva Padre Pio nel convento di San Giovanni Rotondo. Il primo soggiorno durò solo una settimana. Ma il 3 agosto 1916 Padre Pio scongiurò il superiore provinciale di rimandarlo per un po’ di tempo a San Giovanni Rotondo “dove Gesù mi assicura che starò meglio”. Inoltre spiegava che “bisogna sollevare un po’ il fisico per tenermi pronto ad altre prove, alle quali egli vuole assoggettarmi”.
Il 4 settembre 1916 Padre Pio ottenne di ritornare nel convento di Santa Maria delle Grazie di San Giovanni Rotondo, sede che gli venne assegnata solo in via provvisoria. Ma il santo vi resterà per cinquantadue anni, fino alla morte, grazie all’amore e alla determinazione dei sangiovannesi, che si opposero con ogni mezzo al suo trasferimento in altro luogo, nel corso delle persecuzioni subite da Padre Pio negli anni venti e trenta. Dal 1916 in poi la storia di Padre Pio e quella di San Giovani Rotondo si intrecciano fino a formare un binomio inscindibile, destinato a sfidare i secoli futuri.
(A cura di Giulio G. Siena)
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